Gli amarcord di Andrea
Quanto bene io voglia a Andrea Guermandi è noto a chi mi conosce o a chi ha seguito con dovizia il mio blog, perché ne ho scritto certo più di una volta. Ora torno a parlar di lui perché mi ha mandato un dattiloscritto che se io fossi un editore, e meglio ancora l’editore de l’Unità, non esiterei a mandare rapidamente alle stampe, supponendo ci sia ancora qualcuno in giro per il mondo disposto a versar qualche moneta pur di legger delle cose scritte bene.
Forse mi sbaglio, e la faccenda non sta così, intendo dire non esistono le persone disposte a spendere per legger bene, per cui il dattiloscritto di Andrea resterà in un cassetto e allora a me vien da dire che da Feltrinelli, da Einaudi, da Rizzoli non c’è mica gente con la testa sulle spalle, e dev’esser così, perché più che un grande scrittore Andrea è uno straordinario giornalista e infatti questo suo dattiloscritto è solo la raccolta di una ventina di pezzi che lui è stato disposto a scrivere per la testata che ha a lungo amato e per la quale ha lungamente scritto.
E quella testata, l’Unità, o più esattamente quelli che l’hanno diretta dopo la chiusura del 28 luglio 2000 quando ci cacciarono tutti, anzi, dopo la sua riapertura il 28 marzo 2001, sono stati così sciocchi da non andare a supplicarlo per favore di tornare, magari anche chiedendogli scusa.
Ho sicuramente già raccontato del “vaffanculo” con cui ci siamo conosciuti e del “a me basta che mi fai lavorare” con cui poi mi ha stregato, quindi non aggiungo altro su di noi. Tento però di incuriosire il lettore e più ancora il potenziale editore: in quelle pagine Andrea racconta di come fu messa in piedi a Bologna Radio Alice e di come forse in quei paraggi si siano dissolte molte illusioni, forse erroneamente contrapposte o veramente contrapposte ma credo ancor di più al deserto che c’è oggi. E ancora di quella conturbante insegnante uccisa con tante minuscole coltellate – non escludo 44 come i gatti di una canzone a quel che mi ricordo scritta proprio a Bologna –, una sola delle quali, fu letale.
Racconta Andrea del caccia militare andato a conficcarsi in una scuola dopo aver piroettato sulle testi degli increduli e lì, in quella scuola, c’erano i ragazzini che studiavano, merda!; o ancora della Celere che a Modena negli anni ’50 fa come poi rifarà a Genova molti anni dopo. Racconta dell’ultimo sogno fatto da Fellini in un albergo da sogno dove già ci aveva fatto sognare, e di quell’operaio che gli piaceva la libertà sua, degli altri e anche di quelli fuori di testa, forse perché bisogna esser fuori di testa per amare davvero la libertà: Mario Tommasini.
Racconta di quali implicazioni politico-ideologiche si possano nascondere dietro la scelta delle parole piada, pida, pieda o piadina e comunque sia dell’ingrediente con cui farcirle, di come andò che chiuse Tango e aprì Cuore, dell’effetto che faceva quell’estate in riviera quando il bagno lo si fece nella mucillagine e si scoprì che il mare respira e volendo lo si può soffocare.
E sempre su quello specchio d’acqua, poco più in là, appena appena più a nord, della nave che prende fuoco e ci muoiono come topi in gabbia gli operai che ci stanno lavorando: «Il racconto del sopravvissuto Widmer Piraccini al collega Claudio Visani fa ancora venire i brividi», ricorda Andrea.
Apre le virgolette e riporta: «Stavamo facendo la pulizia del propellente della nave e l’incendio è scoppiato sopra, nella stiva dove erano in corso lavori di carpenteria e saldatura. Hanno preso fuoco la catramina ed il polistirolo che rivestono le cisterne del gas. Poi il fumo ha invaso anche il doppiofondo dove si trovavano i miei compagni di lavoro. Lì si lavora stando distesi, si esce strisciando, infilandosi poi nei boccaporti. Quelli che erano sopra sono riusciti a scappare. Per gli altri invece… Hanno sicuramente provato a uscire ma c’era già troppo fumo e poi era andata via anche la luce, non si vedeva più nulla. Non avevamo respiratori. Là sotto non si sentiva più nulla».
Ma ci sono due brani di questo libro ancora inedito, e spero per poco, scritto da Andrea su cui voglio richiamare l’attenzione. Il primo è proprio nel suo stile, o meglio, appartiene a quel mondo che Andrea conosce come le sue tasche e sarebbe stato la sua specializzazione, se non fosse che al suo capo – che a un certo punto ero io – disse «A me basta che mi fai lavorare», disposto a scrivere di tutto, dalla bianca alle nera, dallo sport agli spettacoli, e anche a fare un menabò all’occorrenza o a scegliere le foto.
In questo brano Andrea dipana i fili della storia del rock-pop italiano fino al punto da cui avevano cominciato ad intrecciarsi, là fra la via Emilia e il West, per l’esattezza in via dei poeti dove stava l’amatissimo e impareggiabile Roberto Roversi. Andrea mette in fila tutti i protagonisti, Guccini, Dalla, Morandi, Vasco e tutti gli altri, ma è lì alla Palmaverde che ci riporta dove scrive versi quell’uomo dai modi garbati: «Con lui – scrive Andrea – puoi parlare per ore dell’ultimo disco di Bjork o del rapper più oscuro e di Sant’Agostino e trovi lo stesso inesauribile entusiasmo. Che si tratti di Leopardi o di Samuele Bersani, dei 99 Posse o di Ezra Pound. La musica, il rock e il pop, dice, sono parenti stretti della poesia perché le parole di una canzone ti arrivano dentro al cuore». Lo cita. Gli aveva detto: «Jim Morrison è un maestro assoluto e sarei davvero felice se avessi scritto The end».
L’altro brano vattelapesca dov’è andato a trovarlo Andrea. Lo riporto integralmente:
In una conferenza tenuta a Reggio Emilia il 24 settembre 1946, divenuta poi celebre con il titolo Ceto medio e Emilia Rossa, Palmiro Togliatti spiega le ragioni per cui l’Emilia era stata la regione che aveva fornito il maggior contributo alla resistenza al fascismo e alla guerra di liberazione, e perché fosse all’avanguardia nella ricostruzione economica e civile del Paese. In quel discorso il segretario del PCI argomenta a fondo le ragioni storico-politiche che imponevano il superamento del classismo e la costruzione di un solido rapporto con i ceti medi. Se facendo così Togliatti si colloca per molti aspetti nel solco della tradizione del movimento socialista italiano, la cui eredità viene infatti apertamente rivendicata, allo stesso tempo supera il vecchio riformismo proprio nella capacità di andare oltre quell’impianto particolarista e classista che aveva spinto il PSI a privilegiare le ragioni dei braccianti a scapito di quelle dei mezzadri e dei piccoli proprietari, contribuendo a determinare una frattura sociale in cui si sarebbe inserito il fascismo. Il rapporto con i ceti medi, secondo Togliatti, era invece essenziale, sia per il radicamento del PCI che per la realizzazione di quel «patto tra produttori» che era al centro della proposta di politica economica lanciata in agosto su l’Unità con un esplicito riferimento al New Deal. Ai cittadini di Reggio Emilia, quel 24 settembre del 1946 Togliatti spiega: «Appartengono dunque al ceto medio il mezzadro e il fittavolo che non sono proprietari di terra e per avere la terra pagano la rendita fondiaria, ma in pari tempo non sono salariati. Appartiene al ceto medio il piccolo e medio proprietario, che possiede la terra che coltiva. Vi sono poi i gruppi intermedi cittadini, essi pure assai variati, dai commercianti piccoli e medi agli esercenti, agli artigiani, agli imprenditori di piccole e medie aziende. E infine vi sono gli intellettuali, che vanno dal maestro di scuola, dal sacerdote, dalle varie categorie di liberi professionisti, sino agli uomini di grande cultura, poeti, artisti, scienziati, scrittori. Se tutti questi gruppi possono a buon diritto essere considerati come economicamente facenti parte del cosiddetto “ceto medio”, è assurdo però pretendere che essi costituiscano una massa uniforme. Stabilita questa prima verità, ne deriva immediatamente che è errato affermare che esista una specie di incompatibilità organica tra tutti questi gruppi sociali, così numerosi e così vari, e il Partito Comunista». Poste così le cose, a Togliatti sembra evidente che alla adozione di un «nuovo corso» dell’economia sono interessati non soltanto gli operai, o i braccianti, ma tutti i lavoratori, e che vi sono interessati in modo particolare i gruppi del cosiddetto «ceto medio». Ora Togliatti passa all’esame specifico sull’Emilia come terra ideale da cui far decollare questo «partito nuovo ». «Sembra che il torpore che tutto regna altrove, qui finisca. Vi è ardore di movimento, intensità di traffico, e di un traffico che immediatamente ci si accorge essere legato a una vivace attività economica. Sembra che il sangue qui circoli più rapido, che più forte qui batta il cuore della nazione». Ricorda il Risorgimento, in cui l’Emilia sottolinea di fronte a tutta l’Italia il carattere unitario del movimento e Reggio Emilia come città del Tricolore. E ricorda soprattutto quanto l’Emilia abbia dato all’Italia un contributo decisivo a quella profonda trasformazione economica che si è compiuta negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei primi dieci anni del Novecento, ovvero una nuova ondata di sviluppo del capitalismo, che nelle campagne dell’Emilia si manifesta con vivacità singolare. «Che cosa occorre oggi alla nostra agricoltura, e quale parte assegniamo noi a essa?», si chiede. «Occorre, soprattutto, accrescere la produttività delle nostre terre. Ma chi sarà il protagonista di questa azione? Animatori del progresso agricolo, protagonisti dell’azione sociale e politica destinata a provocarlo, saranno oggi gruppi sociali nuovi, e precisamente, da un lato le masse dei braccianti organizzati, dall’altro le masse dei mezzadri, dei fittavoli e dei piccoli e medi coltivatori». Edmondo Berselli, se ci fosse ancora, potrebbe completare il disegno di Togliatti con ciò che nel suo «Quel gran pezzo dell’Emilia» aveva rimarcato: «È il primo nucleo della futura via italiana al socialismo, come via democratica e pacifica, basata su un compromesso tra egemonia comunista e classi borghesi e su un largo fronte democratico che realizzi l’incontro tra le ragioni del lavoro e quelle del capitale». Eravamo nel 1946, il mondo era diviso in due blocchi…
baci
ti adoro