Gli inamovibili di Romagnoli

Gabriele Romagnoli

Dice Andrea Guermandi (qui) che la scrittura che ama è quella di Gabriele Romagnoli e la mia. E la cosa a me fa un certo effetto perché Romagnoli è, se non il, uno dei miei giornalisti preferiti. Ed ancor più un certo effetto me lo fa oggi che su Repubblica, alle pagine 56 e 57, leggo un articolo di Gabriele Romagnoli intitolato L’ultimo giapponese che, a distanza di poche settimane, torna su un argomento – un personaggio divenuto, come dice Romagnoli stesso, “una categoria dello spirito” – del quale avevo trattato nel mio blog il 18 gennaio scorso, in un post dal titolo L’ultimo samurai.

Ne avevo scritto in occasione della morte di Hiroo Onoda, avvenuta appunto il 16 gennaio scorso, e Romagnoli invece ricorda il 9 marzo del 1974, giorno in cui il soldato nipponico fu arrestato mettendo fine al suo mancato armistizio, alla sua rinunciata resa, all’ostinazione con cui negò la fine del conflitto a conflitto finito, ma invero, è fin troppo evidente, nient’affatto finito.

Più lucidamente di me o con memoria più desta, Romagnoli oggi rammenta che Onoda ha un illustre alter-ego letterario, ed è quel Florentino Ariza perdutamente e ostinatamente innamorato di Firmina Daza nell’indimenticabile L’amore ai tempi del colera di Gabriel Garcia Marquez nel quale mi persi, o più esattamente mi trovai, molti anni orsono, certamente in prossimità di quando scrissi Amore in buca, non a caso lì citato.

Ricorda Romagnoli dell’Onoda caraibico congetturato dall’artefice dei tanti Aureliano Buendia di Macondo: «La sua Firmina Daza può abbandonarlo, tradirlo, sposare un altro, lui può fare altrettanto, ma il suo sentimento resterà incrollabile, pronto a riaccendersi a ogni suggestione o incrocio, fino all’incontro finale, alla rotta di navigazione senza porto che spingerà il capitano incredulo a domandare: “Per quanto deve durare questo andirivieni del cazzo?” e Florentino a rispondere trionfante: “Toda la vida”».

Probabilmente io rientro in quell’enclave di individui maschi e femmine di cui Romagnoli dice tutti quanti abbiamo conoscenza che a dispetto delle evidenze, degli smacchi e degli scacchi matti il cero acceso ce l’hanno sempre o il santino o una fede al dito, concetti che Romagnoli esprime ricorrendo alle foto, ai ricordi e, soprattutto, alle speranze.
Io non lo escludo, perché penso si possa o quanto meno sia inevitabile tradire, ed anche imboccar altre strade o non aver più in corpo le stesse cellule scaturite da quell’omlette mangiata nel 1973 o da quel Lambrusco bevuto nel 1983, ma scordarsi quel che si è stati, belli o brutti che fossimo, più che stronzo, mi par idiota, o comunque a me non riesce e ne vado pure fiero.

In altre parole penso che il comandante che mi ordinò di mantener quella posizione a costo della morte e mi lasciò lì in trincea – si sia trattato di un ideale politico, del grande amore o dell’impegno con un amico o della curiosità di ascoltare il mondo – coincideva con il soldato, erano un tutt’uno, uno che gli ordini li dava e l’altro che li prendeva, e a tutto si può venir meno, tranne a se stessi, saresti altrimenti in balìa ad ogni vento.

Sospetto ovviamente che il predecessore di Florentino Ariza si chiamasse Don Quicote e mi chiedo se nella mitologia greca o di un altro angolo di terra vi sia qualcuno che abbia già rivestito quei panni, perché la mia impressione è che si tratti di un archetipo, di qualcosa che abbiamo tutti nel Dna anche se non sempre riusciamo a portarlo a piena maturazione.

Ricorda Romagnoli il detto: non è finita finché non è finita. E il fatto che Onoda vada oltre: neppure quando è finita. «Come ogni teoria non supportata dalla ragione – aggiunge – è tanto attraente quanto pericolosa».

E dunque inevitabilmente quella cieca cocciutaggine è stupidità – e sia! – ma anche il luogo dove si custodiscono le regole, dove il fondamentalista laico accetta il codice «e a quello si attiene», anteponendolo addirittura a se stesso.

Ho diluito a puntate nel blog un saggio scritto molti anni orsono intitolato La politica ritrovata, nel quale, tra le altre cose, ho cercato di misurarmi concettualmente con il bisogno di assoluto che ha anche chi non ha fede e può affidarsi solo a se stesso o alla ragione. Certo la politica ha bisogno anche di realismo, anzi prima di tutto di quello: star coi piedi per terra e fare, come direbbe qualche psicanalista, un po’ di grounding. Occuparsi dell’hic e del nunc, senza voli pindarici. Ma lo sguardo lungo aiuta. Credo. Anche a qualche concettuale circumnavigazione. Come quella appena svolta. Sapendo tenere la barra ferma.

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