Accontentarsi degli hashtag
Mi sto con insistenza chiedendo qual è l’ultimo scritto o discorso di un politico di professione che mi sia capitato di leggere o ascoltare, dal quale ne abbia tratto l’impressione di una riflessione lungimirante, corposa, concettualmente grave e perciò essa stessa invitante alla riflessione, ad un ragionamento capace di mettere in discussione i luoghi comuni costruiti nella propria mente, le certezze acquisite, gli orizzonti tracciati. Me lo chiedo con insistenza sapendo, o quanto meno sospettando, di non aver per così dire “studiato abbastanza”, di non possedere il quadro completo delle relazioni disponibili, la completa “bibliografia consultabile”, ovvero di aver smarrito qualche pezzo, saltato qualche passaggio, di essermi forse saltuariamente distratto.
Mi spiego meglio. Quando nel 1973 lessi su Rinascita i tre articoli (l’ultimo dei quali è ripubblicato qui) che Berlinguer scrisse – scrisse, non twittò – dopo il colpo di Stato in Cile che portò per 17 anni la dittatura di Pinochet, ne ebbi l’impressione di un qualcosa di importante. Poteva piacere o non piacere, ma era chiaro che ci aveva pensato e che chiunque leggesse si sentisse dinanzi a una novità, a qualcosa di inedito, innovativo, prima impensato.
Ora io sicuramente sto facendo una considerazione di parte, ma suppongo che anche qualche grande democristiano abbia prodotto testi coi quali era inevitabile, per un democristiano almeno, fare i conti, misurarsi, ed appunto opportunamente ponderato, meditato, mi verrebbe da dire frutto di un pacato esercizio spirituale.
Un altro testo che mi pare possa essere letto con un analoga considerazione verso la riflessività del lavoro svolto e l’innovazione del contenuto del ragionamento è quello con cui Achille Occhetto rinobilitò il ruolo della rivoluzione francese a esaurita spinta propulsiva di quella d’ottobre. Non erano cose facili da dirsi all’epoca e il valore di alcune di quelle considerazioni è inelubile tutt’oggi.
Ecco però è da quella stagione di partiti succubi delle ideologie e non votati al laico realismo delle realpolitik che mi pare non si legga qualcosa di ponderato, grave e rivoluzionario o, quanto meno, fortemente scombinante. E forse si potrebbe apprezzare la fine della fumosità o comunque l’abbandono dell’inconcludente, del superfluo, del non pragmatico, e dir che quel che è stato gettato alle ortiche son le utopie, le fanfaluche, le ubbie, i ghirigori, e c’è rimasto invece un “grounding” da far invidia a uno psicanalista loweniano, ma io invece lo sento come un affermarsi della filosofia della miseria e della miseria della filosofia, un meglio tutti inebetiti dai luoghi comuni e dalle frasi fatte, dal chiacchiericcio o dal sovrastarsi delle grida che non dalle concatenazioni concettuali.
Credo che uno storico delle dottrine politiche non farebbe male a verificare l’ipotesi solo emotiva che sto balenando, dandole del fondamento se ne ha o stroncandola se del caso. Nel frattempo accontentiamoci degli hashtag.
Tags: Alexander Lowen, Enrico Berlinguer