Lettere sul lavoro
La rubrica delle lettere nei giornali – benché per esperienza diretta sappia quanto possa essere se non proprio manipolata almeno diretta – è comunque una discreta finestra sul cortile, dalla quale si può soddisfare più che la pettegola curiosità d’una comare, quella vivida dell’attento e scrupoloso, mosso dal desiderio di conoscere come vadano le cose nella realtà, più volentieri qua in basso che non lassù nell’empireo.
E allora ecco che oggi, intorno alla saggia Amaca di Michele Serra tesa a dissuadere “i giovani leoni del Pd” dalle tentazioni censoree e repressive nei confronti delle “corbellerie” d’un rockettaro indispettito, su Repubblica c’è una e-mail che giunge da un indirizzo con chiocciola @, ed una missiva partita invece da Pinerolo là dalle mie parti in Piemonte, digitale la prima, cartacea vien da pensare la seconda, delle quali mi vien voglia di dar conto.
La prima testimonia di una signora in precedenza “dirigente di un settore in un Comune”, che “in scienza e coscienza” ha sempre detto quel doverosamente aveva da dire, andando anche contro corrente e inimicandosi il potente di turno ma impedendogli l’illecito e ostacolandogli la corruzione. Afferma la signora d’aver potuto mantenere “l’autonomia di giudizio” ed evitare le “rappresaglie” per il fatto d’aver avuto “un contratto a tempo indeterminato”. Narra poi d’un giovane collega precario estromesso per aver anch’egli tentato di tener ferma la barra del timone e conclude: “se vogliamo che il funzionario eserciti un prezioso controllo preventivo sugli atti della pubblica amministrazione dobbiamo garantire che non sia sotto la spada di Damocle di restare disoccupato”.
Questo scrive la signora Fiora Luzzato che cito con nome e cognome essendo comparsi su un quotidiano che tutti possono leggere e pertanto, penso, non violandone la privacy. Questo scrive ed io mi sento di chiosarla, non perché non auspichi, figuriamoci, che tutti abbiano un posto fisso e non debbano genuflettersi o variamente prostituirsi o addirittura rendersi responsabili (responsabili, non vittime) di ignobili e perseguibili gesti pur di portar a casa il lesso, per sé e per la propria prole, ma perché la pretesa del rispetto di un tal inalienabile diritto, infranto solo quando stavi al palo e in indigenza perché non indossavi una camicia di color bruno, è tanto più forte quanto più onestamente e realisticamente la sbandieri e te ne fai paladino, riconoscendo allora che tanto la fortunatamente garantita signora Fiora quanto il ricattabile e tremulo suo giovane collega sono stati integerrimi ed han tenuto la schiena dritta, una potendo seguitare ad esserlo, l’altro pagando in proprio per tal scelta. E questo per dire che i cacasotto e gli ignavi e i quaquaraquà sono possibili tanto qua quanto là, tra quelli col salvagente al collo e quelli privi di scialuppa, ed io ne ho incontrati di pavidi, qualcuno l’ho anche acquietato e benedetto.
Sì certo, la differenza di classe e il gioco dei potenti sui deboli, ma poi ci sono anche le palle, o come diceva Jannacci, l’orecchio. E questo non sminuisce, anzi, subito dopo l’ennesimo Primo Maggio, rafforza la difesa del primo dei diritti: quello a poter badare a se stessi e questo lo si fa solo conquistandosi in proprio i mezzi di sussistenza.
E veniamo alla seconda lettera. La firma il signor Guido Gilli, come il celebre bar di sapore torinese rimasto in piazza Repubblica a Firenze. Cita Primo Levi il signor Gilli, quella celebre frase tratta da La chiave a stella nella quale si afferma che ‘’l’amare il proprio lavoro” (e perciò l’averlo) è “la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra”.
Lo cita per dar valore alla gratificazione non solo economica dei mestieri alto stipendiati, e insomma per dir la sua riguardo il tetto salariale dei manager statali ed anche dei parlamentari. E a me verrebbe da dire che in effetti un po’ di gaudio a tener in mano il timone della barca anche in mezzo alla procella ci dev’essere e se ne dovrebbe tener conto, non sminuendo tuttavia il fatto che in certi alti compensi va considerato anche la maggiore o minore assunzione di responsabilità e perciò la tutela dei rischi derivanti, anche la più rapida consunzione dell’impiego o il tempo speso per giungere a una certa perizia.
Io il tetto, insomma, lo metterei a ogni professione, il calciatore, l’attore, la rockstar, il presentatore tv, il chirurgo, l’opinionista, senza cadere in questa stizzosa invidia giunta al diapason del guarda loro quanto intascano e senza fare uno stupido e improbabile gioco di pialla livellando tutto a un unico comun denominatore che quello però sì deve esistere, ed è quello indispensabile per esistere. Sporcandosi le mani in qualche modo: quello che meglio so fare, che più m’aggrada, o di cui c’è maggior bisogno.
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