Parole sacre
Qualcosa di quel ch’io penso dell’istituto coniugale è espressa nel racconto Dal latino compreso nella raccolta Sempre più verso Occidente edita da Baskerville. Ma il ragionamento non si esaurisce lì. Il cimento è col Codice civile. Te ne leggono tre articoli quando convoli con rito civile, appartenente cioè a una civiltà: il 143, il 144 e il 147, subordinati al capo IV Dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio.
Recita il primo, intitolato Diritti e doveri reciproci dei coniugi: «Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione. Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia».
Neanche una parola per dir che ci si dovrebbe voler bene, che si debban provar sentimenti, passioni, voglia di abbracciarsi e rotolarsi in un letto. Silenzio assoluto sull’argomento. Né c’è spazio per una confusione, per un disorientamento, per una distrazione. La collaborazione è nell’interesse della famiglia, non del singolo, della persona. La contribuzione in relazione alle proprie sostanze e capacità, non alla propria volontà, determinazione, orgoglio.
Il 144 stabilisce che «I coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa», e che «A ciascuno dei coniugi spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato». Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi, cantava De André, ma noi non abbiamo alcuna voglia di ascoltarlo. Mi piacerebbe sentire un camionista com’era mio zio, sempre lontano da casa, o un marinaio, le cui parole son per definizione inaffidabili.
In caso di disaccordo, dice ancora il Codice al 145, c’è il giudice che decide. Il giudice giudica ed è giusto, amministra la giustizia, tien la dea bendata, soppesa la bilancia.
Sul 146 ci sarebbe molto da discettare, ma sarebbe un esercizio di stile. E tralascio il 147, l’altro che vien recitato dinanzi a una fascia tricolore, perché interessa solo chi ha prole, i proletari, che altro non possiedono se non la prole, come se un figlio si potesse possedere al pari d’una Jaguar.
Ora usano molto i contratti prematrimoniale, se n’è letto riguardo ad attori e cantanti, e l’uso dilaga nel mundo civil. Ci si bacia solo previa apposizione di firma, il coito è sottoposto alla marca da bollo, effusioni sì purché vidimate su fogli protocollo, parole tenere mormorate ai raggi della luna ma solo in presenza di testimoni, opportunamente registrati all’albo dei veritieri del Guardasigilli.
Scordatevi i palpiti, le pulsioni, l’enfasi, le lacrime, Schiller e l’inno alla gioia e finanche quel pazzo di Beethoven che l’ha messo in note; scordatevi gli ormoni, le gonadi e i coglioni, una corsa pazza a fari spenti per impedir che il tuo amore abbia un qualche accidente; scordatevi ogni cosa ci riporti a prima dell’Habeas Corpus, a prima della Bibbia, a prima della Torah. E leggetevi il Codice, sia civile che penale, compreso quello di procedura penale, come ho fatto io quando ho dato l’esame da giornalista professionista. E naturalmente, dimenticavo, la Costituzione.
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Che triste matrimonio devi aver avuto per scrivere quel che scrivi!
Non ho mai capito perchè chi la pensa come te si sposa, così come non ho mai del tutto capito chi si sposa solo civilmente.
Ho sempre pensato che chi lo fa, voglia per l’appunto le conseguenze che indica il codice civile. Diritti e Doveri, appunto. Ed invece forse, e più banalmente, lo si fa perchè non si approfondisce, perchè non ci si pensa, perchè lo si usa come un’innocua sceneggiata, senza neanche quella serietà che si riserva ad esempio alla stipula di un contratto di mutuo!! Del quale non si pensa neanche per un attimo di poter dimenticare gli obblighi, di non pagar la rata, visto che altrimenti ti sottraggono il bene a garanzia. Si prende più sul serio il contratto di mutuo che quello di matrimonio, nonostante poi si professi la maggiore imporatnza dell’amore rispetto al denaro.
Io non mi sarei mai sposata civilmente. Mi sono sposata in Chiesa perchè sono credente. Ed il mio matrimonio è pieno, ancora dopo tutti questi anni, di “palpiti, le pulsioni, l’enfasi, le lacrime, Schiller e l’inno alla gioia e finanche …….. di Beethoven che l’ha messo in note; …… gli ormoni, le gonadi e i coglioni, una corsa pazza a fari spenti per impedir che il tuo amore abbia un qualche accidente”, e poi la gelosia e le capriole sul letto, ed anche le fatiche, i momenti d’abbandono, il sangue che bolle, il tutto intriso di tenacia e di umiltà. Ed infine la gioia della consapevolezza che tutto questo non è un solipsistico gioco dedicato ad un se stesso autoreferenziale, ma che è un progetto collettivo, condiviso con i figli e con tutta la gente che, più o meno accidentalmente, ti fa compagnia nel tuo viaggio esistenziale.
Dal me al noi.
Dipende tutto dai protagonisti, più che dal codice.
Il codice civile, per l’appunto, mette dei paletti al soggettivismo, impedisce il ” chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato scuordammoce ‘o passato” da parte di chi ha liberamente scelto di stipulare un contratto. Che con l’amore, non ha a che fare più del codice civile.
Conclusivamente: la differenza non la fa il matrimonio, e nemmeno il diritto: la fanno le persone!
Come dice il mio amico Prof. Remo Caponi, accademico di fama internazionale .. ” E’ dal dolore dei fatti che nasce il diritto”. Ed ancora:
“Voi chiedete al giurista un’illuminazione su come ci si deve comportare nella vita per evitare di infrangere delle norme giuridiche? Ebbene io ho cominciato la mia carriera di studioso di diritto ormai venticinque anni fa con l’idea di cercare le norme che regolano i fatti della vita. Oggi mi sto convincendo che i fatti della vita regolano le norme più di quanto le norme riescano a regolare i fatti.”
P.S. Tu scrivi: “Il giudice giudica ed è giusto, amministra la giustizia, tien la dea bendata, soppesa la bilancia” . La dea bendata è la fortuna, non la giustizia! Il giudice non “tien la dea bendata”, per fortuna nostra la giustizia non ha da esser bendata mai, anzi deve approfondire, e – grazie alla triade processuale – far emergere quello che da soli non si riuscirebbe a far emergere. Anche il rapporto processuale è un NOI!
Parole sante, Ornella, che pubblico, come ben vedi, incurante del dolore che mi provocano o che possono provocare ad altri. Un triste matrimonio, dici tu. Io non lo direi mai di nessuno, neanche se ne fossi convinto. Ancor meno del mio. Credo che debbano giudicarlo solo i coniugi, a parte gli aspetti che competono ai giudici. Ai quali mi affido. Avendo io contravvenuto al codice. Non conosco il professor Caproni o le aule universitarie se non per lontane visitazioni e quindi non so dirti quanto ci dia o quanto gli sfugga. Dico solo che l’unico oggetto o soggetto di cui dispongo è un io, il noi mi sfugge, mi manca, m’abbandona, ed a lui, perciò, m’inchiodo, costi anche un po’ di protagonismo. Un io certo, non un dio, l’unico dei quali per me sarebbe potuto essere lei. Grazie del tempo sprecato con me.