Credo fossimo così

Le manifestazioni in piazza a cui ho partecipato e alle quali lui prendeva la parola. Una manifestazione di studenti comunisti a Bologna nel 1973 o la festa nazionale de l’Unità a Firenze nel 1975 e sempre a Firenze il congresso nazionale della Fgci o quello di qualche anno prima a Genova.

I funerali di Berlinguer

Sono d’acchito i primi ricordi che riaffiorano alla mente se cerco di vedere Enrico Berlinguer con gli occhi con cui l’ho visto di persona quando lui era ancora vivo ed io un ragazzino militante di un movimento studentesco guidato dai giovani comunisti, ma orgoglioso della propria autonomia e indipendenza, anche un po’ di fronda, ma certo non infedele o poco affidabile.

Ovviamente il ricordo corre anche al 13 giugno del 1984, quando in tanti con il pugno alzato e il pianto in gola lo salutammo per l’ultima volta, rendendo onore a uno di noi. Sì, mi sento di dire così: uno di noi. Certo, il più importante, e senz’altro uno che incuteva anche un po’ di soggezione, certamente rispetto. Ma non un alieno o uno che ti sovrasta. E tanto meno uno che non intenda risultare tale facendo il simpatico e l’affabile.

Si può essere seri, anche un po’ cupi, pensosi, assorti e preoccupati, ma senza che questo produca boria, fastidio, insofferenza, presunzione. Ed è così che lo ricordo l’unica volta che ho avuto occasione di incontrarlo davvero.

Enrico Berlinguer

Era venuto a Firenze e soggiornava all’hotel Minerva in piazza Santa Maria Novella. Lavoravo già a l’Unità e mi mandarono da lui a prendere il testo di un suo articolo che avrei dovuto riportare in redazione per spedirlo a Roma e farlo impaginare. Non escludo di conservarne una fotocopia in qualche faldone del mio polveroso archivio.

Mi avvicinai rispettoso al salottino nella hall dov’era seduto insieme ai dirigenti fiorentini del Pci, direi senz’altro Michele Ventura e non ricordo chi altro. Direi anche che con lui ci fosse Antonio Tatò, ma non ne sono certo. Ricordo però come fosse oggi che non mi fece attendere a lungo e mi invitò lui stesso ad avvicinarmi con un gesto cordiale, non solo di chi si rende conto che stai lavorando e in quel preciso istante stai lavorando proprio per lui, stai facendo in modo che il suo intendimento giunga esattamente a fine dove deve arrivare. In altre parole che era importante che quella cartelle dattiloscritte giungessero protette a destinazione e non vi fossero intoppi. Di chi si rende conto che stai lavorando per la medesima causa e stai dando il tuo minuscolo contributo, ma anche che sei persona, e perciò degna di rispetto, ed il rispetto vuole che non si stia a lungo in piedi dinanzi a sé ad attendere, questo è solo un misero modo di tentar di umiliare assai in voga oggi anche fra chi detiene le sole bucce di banana del potere.

Senza sdarsi e senza sdegnarsi, calmo, educato, con gli occhi che ti guardano negli occhi e non hai bisogni di abbassarli come ho visto fare a questi mentecatti di oggi.

Certo Berlinguer era un uomo speciale e come ha saputo dirigere lui il Pci, o forse più in generale, un partito, non ha paragoni, ma resto convinto che lui fosse gli ideali che avevamo, i modelli che seguivamo, il comportamento che ci imponevamo. E per me è davvero arduo usare la prima persona plurale.

Sì certo, poco dopo la sua morte anche tutto quello è stato spazzato via, non solo la falce e il martello e il dover attendere che ti venisse concesso di prendere la tessera.

Ho avuto l’opportunità, poco dopo la morte di Berlinguer, di scrivere insieme a mio padre l’introduzione al volume che offre la possibilità di ripercorrere la storia del Pci attraverso gli atti dei suoi congressi, cinque tomi purtroppo dimenticati oggi da chi pretende di “faccio tutto io” o “ognuno fa quello che sa e che può”, miserandi.

Uno storico forse avrebbe da ridire sulla mia tesi secondo la quale tra il 1973 e il 1981 Enrico non fu una banderuola, anche se questo potrebbe dimostrare che non si accorse appieno dello scempio che in quegli anni fu commesso e per il quale ancor oggi noi stiamo pagando.

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