È l’ora della pace. Ora

L’infezione è ad ora inarrestabile. E si propaga con la velocità e le dimensioni di un’epidemia. Il virus dell’odio appare al momento resistere ai blandi, vani, disperati tentativi della ragionevolezza, divenuta sterile come un antibiotico del quale si sia abusato e contro il quale siano state innalzate poderose barriere difensive.

Assisto smarrito e dolorante a questa peste. Senza tuttavia esser disposto a capitolare, a rinunciare alla mia indisponibilità a schierarmi in una guerra combattendo nella quale, indipendentemente dallo schieramento scelto, si può essere solo perdenti, sconfitti, vinti.

Non sto né con Israele né con la Palestina, ma, più esattamente, non sto assolutamente contro Israele o contro la Palestina come condizione per stare a favore di una, perché io sono a favore di entrambe e mi oppongo semmai solo alle spinte che dall’una e dall’altra parte fomentano il conflitto, ad ogni azione o reazione o reazione alla reazione che produca ancora guerra anziché finalmente pace.

So quanto sia difficile avvicinare a questa mia posizione, o appunto, avvalendosi della ragionevolezza, tentar di persuadere, riuscire a convincere con un’intima, profonda, genuina condivisione d’intenti, che l’unica soluzione è quella di deporre le armi, sedersi intorno a un tavolo, o anche su un tappeto per terra, e discutere, capire, riconoscersi vicendevolmente e di pari diritti, non uguali ma assimilabili, e certamente entrambi legittimi e bisognosi e doverosamente soddisfabili rispetto a questi bisogni.

So quanto difficile sia farlo con un israeliano e con un palestinese, che sono lì, e la guerra la vivono sulla propria pelle, i missili li sentono passare sulla loro testa o sono appena fuggiti dalle macerie prodotte da aggeggi che costano più di una cisterna d’acqua o di una ciotola di humus o tehjna.

So quanto difficile sia farlo con un ebreo e con un mussulmano, residenti non lì ma a migliaia di chilometri, eppur in cuore loro fratelli di una vittima o potenzialmente bersagli se il nemico è chiunque appartenga al gruppo avversario, il giudeo o l’arabo.

E mi accorgo di quanto difficile sia farlo con chi non è né ebreo né mussulmano, né israeliano né palestinese, ma, per un motivo o per un altro, per interessi e finalità che sono diversi, per sovrapposizioni di idee che si sono sedimentate nel tempo, di pregiudizi prevalsi su altri identici ma solo più deboli, ha deciso di schierarsi di qua o di là, sotto la bandiera con la stella di David o sotto quella bianca, rossa, nera e verde.

È tra questi che l’infezione sta dilagando, perché il sostenere le ragioni dell’uno o dell’altro viene sempre più gridato, trovando sempre un motivo in più che rafforzi la propria posizione ma, soprattutto, indebolisca quella dell’altro, anzi indebolisca l’altro, lo schiacci, lo umilii, forse auspichi lo sterminio, la soluzione finale.

Io ci provo anche se so quanto sia difficile, e ribadisco che ci sono momenti in cui è indispensabile la decisione unilaterale, il libero arbitrio, il sottrarsi alle concatenazioni causali e cronologiche, per quanto vere e indiscutibili. IO credo che il nemico vada sorpreso, come talvolta fanno gli animali, mostrando la gola, dicendo che mi potrai colpire ed io perirò se lo farai, o gettando l’arma a terra, finché non ti sia chiaro che io non voglio combattere, perché in questa lunga guerra gli unici che hanno vinto finora sono quelli che non l’hanno fatta osservandola solo da lontano. Come quelli che oggi qui, non là dove piovono le bombe, aizzano all’odio e sembrano volere il supremo spargimento di sangue.

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