Il profitto rimosso
Il grande errore commesso dai seguaci di Karl Marx – li si voglia chiamare socialisti o comunisti, poco importa – è stato quello di sbandierare come obiettivo risolutivo dell’ineguaglianza in terra l’abolizione della proprietà privata, o, secondo la lettura che ne hanno fatto le classi possidenti, detentrici di una proprietà privata la quale non fosse la sola forza lavoro e la prole, da cui il termine proletariato, la requisizione, l’esproprio della proprietà privata, in altre parole il furto, un che di banditesco e rapinatorio, anziché un articolo di codice, una legge da applicarsi, un’eguaglianza da condividere. Questo ha comportato, insieme al duplice significato contenuto nella parola “spettro” impiegata da Marx stesso all’inizio del Manifesto – un fantasma pauroso più che un’hegeliana inconsistenza – un secolo di timori e anche un bel po’ di giustificato terrore.
Sta di fatto che oggi ci troviamo nell’impossibilità di mettere minimamente in discussione “il presente stato di cose”, la cui negazione, semplicemente, per Marx era il comunismo: qualcosa d’altro rispetto al suo oggi, un domani, nella sua testa, migliore del proprio presente, adesso, a cose fatte, una gran desolazione. Guai a chi osa dire che le leggi di mercato non sono come quelle della fisica dettate dalla natura, o comunque da una forza maggiore, ma tutt’al più, come le altre comprese nei codici e nelle legislazioni, frutto di convenzione, patto, stesura e possibile abrogazione o riforma. Criticarle pur rispettandole è come far peccato di blasfemia e azzardarsi a dire che né Ricardo né Smith le vergarono così cogenti è un’immediata autocondanna al rogo. Mettersi lì a ragionare sui diversi significati che si nascondono intorno a parole come libero, libertà, liberticidio, libertino, liberale, liberista o cosa si debba intendere per la libertà di uno che preclude quella d’un altro è come dichiararsi jettatori di professione e perciò mettersi nei panni di chi dev’essere cacciato dal consesso.
Nel frattempo si è fatto di tutto per distogliere l’attenzione dal cuore del problema, che si chiamava e continua a chiamarsi profitto, ma nessuno più usa questa parola. Il quale non è guadagno. Sempre più, peraltro, somiglia alla rendita, contro la quale, invero, si era innalzato rivendicando la propria dignità, conquistata, diciamocelo, a scapito del salario. Oggi è altro il profitto, ma non di meno danneggia innalzando steccati e ingiustizie, disparità e steccati, anzi divaricando il dislivello. I ricchi aumentano, certo, in termini assoluti, ma in proporzione alla popolazione diminuiscono, la ricchezza si concentra e la povertà conquista punti percentuali. Non solo: la stessa ricchezza del singolo in proporzione lievita a dismisura. Dalla Rolls Royce si passa al garage con tutte le auto a disposizione. O quanto meno alla disponibilità di risorse illimitate.
Questo dovrebbe studiare la politica anziché l’appeal dei pantaloni di una ministra, nemmen più di cosa essi fascino. Ma questa distrazione dalla questione profitto finisce per alimentare il bellum omnium contra omnes, tutti rei d’appartenere a una categoria che infastidisce le altre o verso la quale si prova invidia e rancore. Allora tutti s’improvvisano provetti chirurghi non avendo mai nemmen disossato un pollo e naturalmente chef perché è capitato di affrittellar due uova, e, in virtù di questi diplomi auto concessi e della sacralità del sedicente, Barnard che trapiantò il primo cuore sarebbe indegno di una voce sulla Treccani e l’Artusi, un pellegrino, anziché Pellegrino. Gli avvocati ce l’hanno con i medici che ce l’hanno con gli autisti d’autobus, a loro volta inviperiti con le stiratrici professionali per via delle pieghette sulla divisa all’altezza del gluteo e, in questo adirarsi l’un con l’altro dicendosene di tutti i colori, c’è chi si pasce dall’alto dei cieli.
Il punto sta lì, lo ripeto, nella formazione del profitto, e limitarne l’entità sarebbe la rivoluzione, il ganglo necessario a ripartir meglio l’ottenuto.
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Il problema è che, come diceva Marx, per il Capitale ogni limite è un ostacolo. Esso non accetta alcun tipo di limite, morale, psicologico, politico, religioso. Lo vediamo in questi giorni. Bisogna cancellare l’articolo 18 e aumentare ancora la flessibilità, perché il capitalista deve essere libero di poter licenziare all’occorrenza, bisogna privatizzare qualsiasi cosa, anche l’acqua, anche la sanità, e guai a chi parli di nazionalizzazioni! Non può essere posto nessun vincolo al “mercato” questa entità astratta. Il politico è sottomesso all’economico, e non esiste più, per l’amministratore, il mandato degli elettori, e nemmeno la sua coscienza, ma solo l’onnipresente diktat del “ce lo chiede l’Europa”col quale si intende l’obbedienza cieca alle lobby finanziarie e alla Troika.
Il Capitale ha accettato o tollerato la presenza dello Stato nell’economia e politiche keynesiane (ovvero la tanto detestata pianificazione dell’economia, rigettata ipocritamente nella teoria ma praticata nei fatti da tutti i governi fino agli anni ‘80) finché gli investimenti privati potevano crescere sulla spinta della spesa pubblica. Quando si è avverata una delle profezie di Marx (una delle tante) e cioè la caduta tendenziale del saggio del profitto, a cui sarebbe seguita una crisi economica, quindi disinvestimenti, disoccupazione, riduzione dei salari e recessione (quello che stiamo vivendo ora) si presentava una sola alternativa: un ulteriore e più pervasivo intervento statale attraverso nazionalizzazioni di comparti produttivi che non assicuravano più profitti crescenti. Lo si chiami socialismo, lo si chiami statalismo, lo si chiami capitalismo di stato, fatto sta che si preferì scegliere la strada opposta, grazie alla complicità soprattutto dei successori di Marx e Gramsci che si consegnarono mani e piedi all’ideologia neoliberale. E così abbiamo avuto la crisi, imposta – non calata dal cielo, come si vuole spesso far credere – attraverso la distruzione dello stato e la “cessione della sovranità”. La sinistra si è imbarcata (e ci ha imbarcati tutti) in questa follia chiamata euro, illudendosi potesse essere sinonimo di progresso e fratellanza tra i popoli, quando invece ha significato soltanto cancellazione di tutti i diritti sociali e guerra finanziaria. Ecco, forse è arrivato il momento di tornare al buon vecchio Marx e al buon vecchio Keynes (contro chi li vorrebbe avversari) così frettolosamente liquidati dai “sinistri” al potere.