La penna di Gabriele
Evito di mescolare quello che scrivo qui nel blog con quello che ha a che fare con il mio lavoro, con ciò da cui traggo da vivere. Ma un’eccezione bisogna la faccia, perché qualche giorno fa, facendo il mio mestiere appunto, ho dato notizia delle iniziative programmate all’interno dell’ex ospedale psichiatrico di Firenze – San Salvi, un luogo che qui nel blog ha ricordato Juanito – in occasione del centenario della fondazione della biblioteca Vincenzo Chiarugi, il quale fu il direttore del manicomio.
Fra le manifestazioni in programma c’era una performance che ha preso spunto da un articolo intitolato “Un cinema-teatro nasce anche per abbattere il muro dell’isolamento”, pubblicato sulla cronaca di Firenze de l’Unità il 21 giugno 1977.
Quell’articolo fu scritto da Gabriele Capelli che, come più volte ho avuto modo di ricordare anche qui, è stato il mio maestro, fino a un certo punto un grande amico, l’altro vicedirettore come me del quotidiano locale Mattina, e comunque un collega e una persona verso la quale fino all’ultimo istante della sua vita, e poi ancora dopo nel ricordo, ho nutrito stima, rispetto, affetto e gratitudine.
Gabriele scriveva poco, lo ha fatto un po’ di più fra il 1975, quando entrò a l’Unità, e il 1978, quando ci entrai io come collaboratore e lui non era già più un cronista ma un vicecaporedattore. Scriveva poco, correggeva, faceva scrivere e riscrivere. Scriveva poco, ma quando lo faceva era un piacere leggerlo. E così, riscontrato casualmente il riferimento ad un suo articolo sono andato a ricercarlo nell’archivio storico del giornale fondato da Antonio Gramsci che, malgrado la sciagurata ennesima chiusura – da mesi non è in edicola –, fortunatamente è ancora disponibile on line.
Lo ripropongo qui sperando che le tante bocche che si sciacquano con il nome di Gabriele trovino due soldi per pubblicare un libro che raccolga i suoi scritti. Nessuno ha pensato a farlo quest’anno che ricorreva il decennale della sua morte: speriamo in un tardivo ripensamento. Lo meriteresti, Gabriele.
Un cinema-teatro nasce anche per abbattere il muro dell’isolamento
Anche San Salvi avrà il suo cinema-teatro. Lo ha già avuto in passato, negli anni bui in cui non si parlava ancora di deistituzionalizzazione, una parola forse un po’ difficile, burocratica, dal sapore libresco, ma che in pratica significa “slegare” i matti, toglierli da quelle moderne e raffinate prigioni che sono i manicomi per inserirli nella società, abbattere, non solo metaforicamente, i muri dei reparti, spezzare una volta per tutte quel sottile e resistente steccato che separa i cosiddetti malati dalla gente sana.
Il cinema-teatro quindi, inteso come luogo chiuso per gente chiusa in gabbia, come contentino per chi è costretto a passare la propria vita dietro un muro di cinta, è morto e sepolto. A spazzarlo via definitivamente ci pensò l’alluvione del ‘66. Lo stanzone, 500 metri quadrati circa, restò seriamente danneggiato dall’acqua e dal fango, che dentro l’ospedale raggiunsero l’altezza di quasi due metri. Per qualche anno fu destinato a magazzino, poi venne usato per un concorso di apprendisti muratori che si affannarono ad alzare muretti più o meno pericolanti. Poi, due o tre anni orsono, maturò l’esigenza di ripristinarlo, di utilizzare uno spazio fino a quel tempo sprecato. Diversi i criteri, le finalità, l’impostazione.
Il cinema-teatro deve essere uno spazio del e per il quartiere – dicevano i medici e gli infermieri più aperti, le stesse forze politiche e sociali più avvertite del territorio – un ponte tra il dentro e il fuori ospedale, una cerniera tra il manicomio, finora considerato un corpo estraneo, e il territorio. Già qualcosa si era mosso in questa direzione. Nel ‘75 la prima, dirompente iniziativa. All’interno di San Salvi viene organizzata la festa per il trentesimo anniversario della, Liberazione. Festa non “protetta”, uguale a tutte le altre, e con gli spettacoli, i tradizionali stand gastronomici, mostre, la proiezione di film, il dibattito politico-culturale. Nuovo l’ambiente in cui si svolgeva: i teatri casermoni dell’ospedale, per l’occasione rallegrati da un mare di bandiere, drappi, cartelloni. Nuova anche la partecipazione della gente. Studenti, famiglie al gran completo, torme di bambini, hanno mangiato, riso, scherzato con i degenti.
Il ghiaccio era rotto. Anno dopo, altra iniziativa. Questa volta si celebra il trentesimo della Repubblica. Si va all’esterno, nelle case del popolo della zona. Proiezioni di film, dibattiti, scambio di idee sulla psichiatria. Un limite emerge con chiarezza: sono presenti soprattutto gli “addetti ai lavori”, si sfiora il tecnicismo, la partecipazione dei malati e della gente è scarsa. Altro anno, altro passo in avanti. Per un giorno nel IV reparto misto, uno dei pochi aperti, i colori regnano sovrani. I giovani della brigata Rodolfo Boschi di Grassina dipingono nel corridoio del reparto un grande murales, una carrellata sulla sofferta ricerca da parte dell’uomo della propria identità. In realtà a dipingere sono in tanti: steso il bozzetto, malati, infermieri, operatori insieme ai giovani di Grassina si rimboccano le maniche e, pennello alla mano, stendono i colori. Poi si mangia tutti insieme. Il murales è ancora là, campeggia nel reparto a ricordare un giorno diverso dagli altri.
Tre anni, tre tappe di una silenziosa ma costante “marcia attraverso l’istituzione”. Ma un problema resta aperto, viene sempre più sottolineato nelle assemblee cui partecipano medici, infermieri e degenti: le esperienze fatte, preziose, interessanti, come si dice “di rottura”, non possono rimanere legate alla sporadicità, devono trovare un filo logico continuo, devono riuscire a diventare pratica quotidiana. C’è l’esigenza, avvertita da tutti, di un ulteriore salto di qualità. Il cinema-teatro può essere lo strumento adatto. L’idea, germogliata nel ‘75, proprio durante la festa della Liberazione, ribadita in un convegno svoltosi alla Flog, si irrobustisce, si precisa, prende lentamente corpo. Partono le domande, si chiede il placet per l’avvio dei lavori. Il permesso diviene operativo circa un mese fa. Un gruppo di studenti, quasi tutti di magistero, due o tre di medicina, esegue materialmente il lavoro.
Per due settimane nello stanzone lavorano insieme degenti e studenti: abbattono i muri, lavano per terra, spolverano, scopano, tirano a lucido tutto. Finito il lavoro, ancora problemi. Resta da sistemare il tetto, ripristinare i servizi igienici, l’impianto elettrico e di riscaldamento, sistemare gli infissi, il pavimento, imbiancare. Resta soprattutto da definire come gestire concretamente questa struttura, farla uscire dall’isolamento, e ancora come possono essere utilizzati in futuro gli studenti che hanno lavorato per riattivarla. Mercoledì, ore 10, assemblea del gruppo di volontari con alcuni medici e pazienti. Da parte degli studenti si esprimono dubbi, perplessità, si chiedono “spiegazioni” sul cosa e sul come fare.
Si volta pagina, un altro capitolo si apre. Ora inizia la fase forse più difficile, in cui verranno allo scoperto mentalità, abitudini, forze contrarie ad ogni cambiamento.
Una cosa è certa – dicono gli operatori che da anni si battono per rinnovare i metodi della psichiatria tradizionale – indietro non si torna. Nel ‘70 i ricoverati a San Salvi erano 2.300, ora sono (…) I reparti aperti sono ancora isole, ma la tendenza non si può arrestare. Molto resta comunque da fare. Vanno bloccati i ricoveri intervenendo nel territorio in modo più articolato ed efficace; vanno dimessi i pazienti per i quali è possibile il reinserimento nella società; infine, nella fase di transizione, in cui rimane ancora il manicomio, vanno gestiti in modo corretto i reparti che ancora ospitano i malati. Non si istituzionalizzano soltanto i ricoverati ma anche gli operatori psichiatrici e il personale paramedico.
Ancora una volta balza in primo piano il problema dei rapporti con l’esterno. Solo il contatto continuo con i cittadini, il quartiere. con la sua realtà, può garantire un’apertura reale dell’ospedale psichiatrico. Le difficoltà ci sono, anche e soprattutto per i degenti. Rompere il cerchio dell’abitudine di anni alla sicurezza e alla protezione che l’ospedale offre, non è facile.
La via scelta è difficile, tortuosa, irta di ostacoli ma è l’unica che permette di combattere radicalmente, nelle sue radici sociali, la malattia mentale. Fuori da questa strada maestra esiste solo la sconfitta, il ricorso a metodi repressivi, la negazione della dignità umana. Il quartiere che con il cinema-teatro avrà a disposizione una importante struttura utilizzabile per incontri. proiezioni, spettacoli, dibattiti, può diventare un “cuneo terapeutico” dirompente. Sulla stessa linea si è mossa la provincia di Firenze che, ribadendo il carattere di ospedale aperto che San Salvi deve sempre più assumere, ha previsto nell’area tutta una serie di strutture e di servizi pubblici.
Gabriele Capelli
l’Unità, 21 giugno 1977
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