La severità smarrita
Da quello che ho letto, alla Camera si sta discutendo un disegno di legge di riforma delle norme relative alla diffamazione a mezzo stampa, con il quale sostanzialmente si abolirebbe il ricorso alla reclusione – ora da 6 mesi a 3 anni – nel caso un tribunale accerti che un giornalista pubblicamente, e nella fattispecie servendosi di un media capace per sua natura di espandere l’audience, “offenda l’altrui reputazione”.
Questa infatti è la definizione di “diffamazione” data dal Codice penale (art. 595), uno dei due capisaldi di quello che, finché non si siano cambiate le norme, si può o non si può fare: “l’offesa dell’altrui reputazione” arrecata “comunicando con più persone” (anche in una piazza dinanzi a vari testimoni), aggravata se effettuata “col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico”, in altre parole estendendo la platea degli uditori.
L’offesa dell’altrui reputazione, dunque, in presenza d’altri e in assenza dell’interessato, ché altrimenti si definirebbe “ingiuria”, la quale costituisce comunque un reato giudicato punibile dal Codice penale all’articolo 594: «Ingiuria. Chiunque offende l’onore o il decoro di una persona […] presente è punito […] con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a euro 516. Alla stessa pena soggiace chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa».
La pena aumenta «qualora l’offesa sia commessa in presenza di più persone» e, tanto nel caso dell’ingiuria quanto in quello della diffamazione, «se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato».
Quest’ultima specificazione ha un aspetto assai rilevante, a mio giudizio, nella definizione del reato di diffamazione a mezzo stampa, ovvero sia di quello commesso da un giornalista servendosi dello strumento con cui, o per cui, lavora.
Prima di soffermarmi su questo aspetto è opportuno però ricordare che il Codice penale prevede anche il reato di “calunnia”. Dice l’articolo 368 che la calunnia è quella commessa incolpando «di un reato taluno che egli sa innocente», ovvero simulando a carico di questi «le tracce di un reato», ed ancor più dettagliatamente lo faccia «con denunzia, querela , richiesta o istanza, anche se anonima o sotto falso nome, diretta all’autorità giudiziaria o ad un’altra autorità che a quella abbia obbligo di riferirne», indipendentemente dal fatto che da tale denuncia si avvii o meno un procedimento penale, ovvero sia per la mera potenzialità che un tale procedimento si avvii.
La calunnia, insomma, a norma di legge, è la delazione di un falso, far la spia raccontando una frottola, reato che vien punito aggravando la pena in ragione della gravità dell’accusa mossa, tanto che se si incolpa qualcuno di un reato per il quale fosse prevista la pena di morte, la condanna del calunniatore sarebbe all’ergastolo.
Merita qui riportare i versi di una delle più celebri arie della lirica, tratta dal Barbiere di Siviglia di Gioacchino Rossini, il cui libretto fu scritto da Cesare Sterbini, “La calunnia è un venticello…”:
«La calunnia è un venticello / un’auretta assai gentile / che insensibile sottile / leggermente dolcemente / incomincia a sussurrar. / Piano piano terra terra / sotto voce sibillando / va scorrendo, va ronzando, / nelle orecchie della gente / s’introduce destramente, / e le teste ed i cervelli / fa stordire e fa gonfiar. / Dalla bocca fuori uscendo / lo schiamazzo va crescendo: / prende forza a poco a poco, / scorre già di loco in loco, / sembra il tuono, la tempesta / che nel sen della foresta, / va fischiando, brontolando, / e ti fa d’orror gelar. / Alla fin trabocca, e scoppia, / si propaga si raddoppia / e produce un’esplosione / come un colpo di cannone, / un tremuoto, un temporale, / un tumulto generale / che fa l’aria rimbombar. / E il meschino calunniato / avvilito, calpestato / sotto il pubblico flagello / per gran sorte va a crepar».
Per tornare all’argomento principale, merita ricordare che, proprio mentre di ciò si sta per discutere nell’aula preposta appunto a far leggi e a dirci cosa possiamo e cosa non possiamo fare, Marina Morpurgo – ex collega a “l’Unità” di Milano che ho invidiato quando si trasferì a “Diario” –, il 15 maggio prossimo dovrà presentarsi dinanzi a un giudice essendo stata denunciata, giustappunto per diffamazione a mezzo stampa, dalla titolare di una scuola di formazione professionale, se non ho capito male di Foggia, che si è sentita offesa nell’onore nonché denigrata dai giudizi che Marina ha dato di una ignobile (l’uso di questo aggettivo mi costerà una denuncia) campagna pubblicitaria organizzata da quella scuola (scuola? Anche questo inciso potrei pagarlo caro) per promuovere un corso da estetista.
Ma, si badi bene, non su “Vanity Fair” o sulla prima pagina del “Corriere della Sera”, ma sul proprio profilo Facebook. A scanso equivoci sono solidale con Marina Morpurgo, condivido quello che ha scritto, spero tutto si risolva per il meglio per lei e ritengo che il magistrato che l’ha rinviata a giudizio accogliendo la denuncia di parte abbia preso fischi per fiaschi e lucciole per lanterne.
Stando a quello che leggo – l’Espresso da conto di questa vicenda qui – le critiche formulate dalla collega non ledono, a mio giudizio, la dignità di chicchessia, né vedo denigrazione o offesa dell’onore in quello che dice, ma la legge espressamente parla di denuncia da parte di chi si sente offeso, addirittura indipendentemente dal rilievo della veridicità dei fatti.
Stando alle definizioni, insomma, Marina ha diffamato, perché la fama che la sua querelante ritiene si debba avere di se stessa è assai diversa da quella che la collega, io e molti altri abbiamo di lei. La signora, pertanto, ha diritto di denunciarla, l’autorità giudiziaria potrebbe, prima di scomodare una giuria, valutare più sensatamente se, come io temo, siamo dinanzi a un delirio (e peggio ancora a un bieco tentativo di farsi pubblicità avvantaggiandosi con l’opportunità legale che le è stata offerta) o a qualcosa degno d’essere preso in considerazione.
Non sono d’accordo con chi difende la collega sostenendo che Facebook non è un media perché restringe ai propri conoscenti la fruizione di quanto si pubblica sulla propria bacheca: è vero, in quel social network esistono modalità di protezione della privacy che possono limitare la vastità del pubblico, paradossalmente fino al punto di essere visibili solo da se stessi, ma nel momento in cui si schiaccia il tasto “pubblica”, si sta dando un ordine, che è quello di pubblicare, ovvero sia rendere pubblico e trovo sciocco, come ho avuto occasione di dire polemizzando con una persona che mi ha accusato di aver reso noto quanto essa avevo reso noto “solo” su Facebook, ritenere “riservato” quanto è per definizione “social”. Anche la Gazzetta dello sport limita il suo pubblico agli sportivi tagliando fuori tutta la fetta dei non sportivi, così come Annabella si rivolge prevalentemente alle donne, Playboy agli uomini e Topolino ai bambini, ma non per questo sono l’house organ di un club chiuso e ristretto, che circola quasi in clandestinità.
E semmai l’argomentazione escluderebbe l’aggravante del “a mezzo stampa”, non il reato della diffamazione, che per dirsi tale è sufficiente dinanzi ci sia nuora e suocera, dicendo alla prima si vuol riferire alla seconda, ed una terza ne venga edotta e si senta in qualche maniera indispettita da quel ciarlare.
Io non voglio qui ripercorrere i contenuti della critica di Marina Morpurgo al biasimevole poster, anche perché non intendo dar ulteriore risalto agli sconsiderati ammiccamenti in esso contenuti, poco distanti dai margini della pedofilia, come del resto tanti manifesti di abbigliamento infantile e anche per donne e uomini di una certa età ma non nell’immagine che hanno di sé.
Condivido, stando a quel che leggo, quella critica, non la trovo offensiva, semmai anzi pertinente e non vedo di cosa ci si debba risentire se uno constata l’appartenenza propria e dell’offeso a due mondi diversi, uno fermo agli anni Cinquanta, l’altro progredito magari leggendo Simone De Beauvoire e qualche altra cosetta buttata giù dopo da penna femminile.
Nemmeno l’accenno a una possibile pena corporale ipotizzabile per quell’allestimento pubblicitario desunto dai cartoons ambientati a Paperopoli – l’impeciamento e l’impiumazione – mi sembra possa esser preso per una minaccia violenta.
Perciò, se non concordo con l’avvocato Carmela Caputo che difende la giornalista riguardo il carattere “privato” dei social network , concordo con essa quando, nella memoria difensiva vanamente presentata per dissuadere il pubblico ministero a procedere con la citazione a giudizio, ha rilevato l’inaccettabile fatto che la sua assistita «venga indagata non per aver detto il falso, o denigrato persone o enti, bensì semplicemente per aver espresso un’opinione che può piacere o non piacere, ma che deve comunque ritenersi più che legittima e manifestata nei limiti della legalità».
Insomma un inequivocabile attacco al «diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, utilizzando l’ironia e il sarcasmo per polemizzare su un manifesto discutibile, che appare fortemente lesivo dell’infanzia». Quel diritto sancito, come principio fondamentale, dall’articolo 21 della Costituzione.
Ora, però, vorrei tornare al disegno di legge di riforma delle norme relative alla diffamazione a mezzo stampa in discussione alla Camera, contro il quale si è levata un’ondata di critiche perché, pur abolendo la possibilità di reclusione per il giornalista autore della diffamazione – si ricorderà il caso Sallusti di cui ho scritto qui e qui –, viene innalzato (fino a 50 mila euro) il tetto della pena pecuniaria prevista in sostituzione del carcere, imposto l’obbligo di rettifica in 48 ore senza possibilità di replica, e resa possibile la cancellazione dell’articolo considerato diffamatorio.
L’obiezione è che solo i grandi gruppi editoriali in grado di sostenere multe così salate potrebbero permettersi di far esprimere ai loro giornalisti liberamente il proprio pensiero, non un “peones” (“cocones y maricones”, mi avrebbe aggiunto Gabriele Capelli fosse ancora vivo) come me che paga ogni anno di tasca propria il dominio internet sul quale state leggendo o chi comunque lavora per una testata on line.
Un panorama delle critiche all’impianto di questo provvedimento le si possono leggere sia su questo articolo dell’Huffington Post che riporta, tra le altre, l’opinione di Stefano Rodotà, sia in questo apposito sito messo in piedi da Articolo 21.
Trovo molto giusto il suggerimento della Gabbanelli di introdurre norme che dissuadano dalle querele infondate e temerarie – come quella della direttrice della scuola per estetiste –: «Nei paesi anglosassoni – ha detto all’Huffington Post – i giornalisti che diffamano sono puniti molto più severamente, ma al tempo stesso il codice di procedura civile prevede che in caso di lite temeraria, il querelante rischia di essere condannato ad una sanzione che è pari ad un multiplo di ciò che chiede come risarcimento danni (tal de’ tali mi chiede 10 milioni, ma sa che rischia di doverne pagare 20). Questo perché l’atto intimidatorio è un attacco alla libertà di stampa e quindi al diritto di ogni cittadino ad essere informato. Da noi nonostante sia prevista una sanzione, è raramente applicata ed è quantificabile in una multa da 1000 euro per aver disturbato il giudice».
Ma trovo anche molto tristi motivazioni come quella di chi giudica preoccupante che «in un mondo in cui l’informazione digitale, il giornalismo partecipativo e il dialogo online diventeranno maggioritari, si stia facendo una legge che non prevede adeguate garanzie per il web».
Non credo si tratti di difendere i diritti del web, un reticolato di fili e onde elettromagnetiche, ma delle persone che popolano questo mondo: Alessandro Gilioli dell’Espresso li chiama «i giornalisti free-lance e i citizen journalist, ma anche i semplici utenti che esprimono il loro parere sui social network, insomma tutti coloro che non sono garantiti da un contratto e quindi dall’ufficio legale della loro azienda».
Proprio perché aumenta la possibilità di infangare la gente – abbiamo tutti in mano un Madagascar da scaraventare nell’oceano, non più solo un sassolino da gettare nello stagno dietro la capanna – si deve tentare di insegnare l’esposizione di pensieri che, per quanto decisi e netti, non siano offensivi ed insultanti, e adottare strumenti da impiegare quando si oltrepassano quei limiti.
Nell’articolo sull’Huffington Post Rodotà si dice preoccupato perché «viene pericolosamente ampliata la responsabilità del direttore per omesso controllo, ormai improponibile in via di principio e sicuramente devastante per i giornali online, caratterizzati da un continuo aggiornamento». Comprendo, ma non vedo motivo di essere veloci nel buttar in rete notizie se non le si sono prima verificate e non ce l’ha ordinato il dottore di stare allo schermo con la tastiera in mano, né ne risentiranno le sorti del Nagorno Karabak se non lo faremo come stessimo tutti all’Ansa o alla Reuter.
Nello stesso articolo un avvocato ci ricorda di prendere atto di come ormai funzionano i giornali, «sapendo che molti contributi vengono ormai da collaboratori esterni, che si dedicano anche a inchieste delicate». Appunto: se Petruccioli avesse chiesto l’opinione di Vladimiro Settimelli prima di pubblicare quello che gli portò Marina Maresca, forse molti come me sarebbero oggi ancor più orgogliosi di aver lavorato a l’Unità.
Colleghi più bravi, meglio preparati, remunerati decorosamente e senza la spada di Damocle di un mercato editoriale fermo e dove conta sempre meno la professionalità.
Anche il diritto all’oblio intorno al quale si ragiona nel momento in cui si chiede l’eliminazione dalla rete dei contenuti diffamatori è confuso da qualche collega con la distruzione degli archivi che scrupolosamente le redazioni, e i singoli redattori ciascuno per la propria competenza, per decenni hanno umilmente raccolto.
Sì, io vedo in questo tentativo di riforma l’ennesima tacca che i potenti stanno incidendo al manico della loro pistola per impedire ai giornalisti di smascherare il potere, ma mi sembra che i potenti abbiano da tempo soprattutto la pistola e la categoria spesso e volentieri ci tenga ad ungergli il tamburo in cambio di un piatto di lenticchie.
E dunque credo che ci sarebbe bisogno di una riforma più profonda, dove, quale che sia la parola – diffamazione, calunnia, ingiuria o menzogna, e più probabilmente quest’ultima – spararle per aria e sempre più grosse non è lecito.
In altre parole penso che l’impiego di parole offensive – porco, stronzo, negro, colluso – tutt’al più meriti un rimbrotto, e forse nemmeno nel caso uno si venda un amico per star a galla come io ho avuto occasione di vedere, mentre sia grave raccontar fandonie per metter nei guai qualcuno: qui si deve essere severi e irremovibili.
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Complimenti, un gran bel pezzo