Ladri onorevoli

Andrea Barbato

Sollecitato dagli inaspettati, vasti e positivi apprezzamenti a quanto ho scritto in La severità smarrita, mi sento in dovere di precisare meglio, o forse solo aggiungere qualche ulteriore specificazione, a proposito del disegno di legge di riforma delle norme relative alla diffamazione a mezzo stampa di cui si sta discutendo alla Camera; del caso dell’ex collega de “l’Unità” di Milano Marina Morpurgo, rinviata a giudizio per aver stigmatizzato sulla propria bacheca di Facebook la pubblicità di una scuola privata che si avvale dell’immagine di una lolita con fiocco e acuminato rossetto rosa per promuovere i propri corsi per estetiste con “idee chiare in testa”; e, infine, dei mal di pancia della categoria professionale alla quale ancora appartengo e dell’insaziabile voglia di bavaglio che la politica sembra avere nei confronti di chi, potenzialmente almeno, dovrebbe ignudare il re.

Terminavo le mie riflessioni auspicando una più profonda riforma dei delitti perpetrabili e delle pene infliggibili a chi fa questo mestiere dove il raccontare storie, ricostruire fatti, descrivere avvenimenti, rendere note azioni e gesti, sempre più spesso si mescola all’esprimere opinioni ed emettere giudizi riguardo; e l’esprimere opinioni ed emettere giudizi si mescola alla percezione delle proprie emozioni, all’andamento dei propri stati d’animo, all’esplosione dei propri pregiudizi e preconcetti; e, a loro volta, le emozioni, gli stati d’animo, i pregiudizi e i preconcetti sempre più spesso si mescolano alla volgarità del linguaggio, all’impiego di aggettivi stereotipati, alla violenza e alla veemenza dei vomiti che per dirli in maniera meno disgustosa possiamo servirci del termine emesi.

Auspicando una più profonda riforma che parta proprio dalla definizione di quei delitti, o reati che dir si voglia, aggiungendo o diminuendo se del caso, ovvero sia precisando meglio e dettagliando cosa si intenda con le parole diffamazione, calunnia, ingiuria, alle quali ritengo vada di rigore aggiunta la parola menzogna. E che consenta di distinguere tra quanto può essere soggettivamente percepito come qualcosa di offensivo e quanto invece è obiettivamente ferente.

«In altre parole – concludevo – penso che l’impiego di parole offensive […] tutt’al più meriti un rimbrotto, […] mentre sia grave raccontar fandonie per metter nei guai qualcuno […]».

La realtà è un’altra. Si diffama nel momento in cui a più di un astante si dice di qualcuno assente che è un ladro, indipendentemente dal fatto che egli si sia impossessato o meno di qualcosa che non gli appartiene. Parimenti lo si ingiuria se glielo si dice in faccia, che abbia le manette o meno per quella indebita sottrazione.

In altre parole un individuo che ha sgozzato tre passanti per strada e sia stato arrestato in flagranza di reato o, se si preferisce, sul fatto, qualora si ritenga offeso da qualcuno che gli dà dell’assassino o ciò di lui dica ad altri, può denunciarlo nel primo caso per ingiuria e nel secondo per diffamazione, e se il magistrato effettivamente ritiene che assassino sia parola da non dire…, in grado di irritare la suscettibilità… , causi un turbamento… guai a chi l’abbia detta.

Del tutto irrilevante rispetto a questi due reati – è questo quanto mi preme qui sottolineare – la veridicità o meno dell’affermazione, la corrispondenza con quanto accaduto, la riscontrabile obiettività.

Solo la denuncia per calunnia ipotizza la discrepanza tra un’affermazione e la verità contenuta in quella affermazione, ma non nel caso in cui quella affermazione venga fatta “coram populo” al bar sport o dinanzi ad un più vasto pubblico con un megafono quale può essere una radio o una tv; solo nel caso quella affermazione venga resa a un’autorità giudiziaria ipotizzando il reato di qualcuno che così si intende screditare.

Nel linguaggio comune, quello di cui si dispone anche fuori dalle aule di tribunale, i verbi calunniare e diffamare non differiscono così tanto, e con essi si intende appunto la maldicenza, le denigrazioni, i maligni pettegolezzi con cui “piano piano terra terra / sotto voce sibillando” si tenta di mettere qualcuno in cattiva luce e “sotto il pubblico flagello” calpestarlo, differendo anche lì, nella vulgata esterna ai palazzi di giustizia, dal significato dell’ingiuria che è assai più simile allo sberleffo, al prendersi gioco, all’insolentire o allo svillaneggiare, quantunque il significato principale del verbo ad esso collegato, sia quello di offendere villanamente con espressioni oltraggiose e, ma solo nell’uso letterario ed antico, «infamare con accuse oltraggiose, commettere ingiustizia contro qualcuno, lederne i diritti con torti e soprusi», tanto da ammettere i sinonim oltraggiare e vilipendere.

Naturalmente prevale un’interpretazione che evidenzia maggiormente gli aggettivi o i sostantivi con cui si può appellare un individuo per fargli saltar le staffe e sentirsi punto nell’orgoglio, come se dar di allegra o di puttana a una donna fosse più offensivo che descriverne il vendere il proprio corpo per usi sessuali, ed è questa interpretazione che sembra tenere in maggior conto la mia categoria quando invoca la libertà di pensiero, laddove, come magistralmente sosteneva Karl Kraus, ciò che fa di uno un giornalista è “non avere un pensiero e saperlo esprimere”.

Saperlo esprimere raccontando i fatti, facendo parlar le cose, mettendo nero su bianco, non c’è bisogno di dar del farabutto ed invocare la vergogna.

Proprio qui sta, anzi, dovrebbe stare, la differenza fondamentale tra uno che s’è affacciato alla rete e s’è specializzato nel 2.0 ed uno che, invece, ha deciso di fare il giornalista, magari pubblicando sul web anziché sulla carta, con il Mac anziché con la Linotype che non c’è più.

Ma anziché invitare i cronisti per caso o gli inviati occasionali a far come facevano i maestri, si calano le brache come già s’è fatto accettando PIL, DPF, DLG e simili insulsaggini, finendo ben presto per scrivere anche sulla prima del Corriere o della Stampa xché o 4u, e i prossimi Biagi, Montanelli, Barbato anziché correggere i pezzi degli ultimi arrivati in redazione, scoreggeranno, perché in fondo, come saggiamente dice la mia ex moglie, che differenza c’è fra pulpito e polpetta?

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