Senza macchia

La deposizione di Monica Lewinsky nel 1999

Monica Lewinsky – alla quale certamente dobbiamo quasi tutti delle scuse, per il sorrisetto malizioso con cui abbiamo pronunciato il suo nome, scherzato sulla sua apparizione e malignato sulla sua intimità in un luogo poco consono all’intimità – ha deciso, ci informano le cronache, di trasformare l’onta in orgoglio e farsi paladina di chi viene vessato da un potente, anzi, più precisamente, di impegnarsi in una battaglia contro quell’atteggiamento di sopraffazione sui più deboli, perpetrato con spavalderia arrogante e sfrontata specialmente in ambienti scolastici o giovanili, mettendo in atto violenze fisiche e psicologiche – così la Treccani definisce il bullismo – o più esattamente ancora contro il cyberbullismo, vale a dire il bullismo virtuale compiuto mediante la rete telematica.

La causa è nobile ed un tempo si sarebbe detto Dio gliene renda merito, perché non sono pochi a ritenere che il cyberbullismo sia una piaga sociale in espansione nei modi e nei metodi nient’affatto dissimile a soprusi con cui in un’epoca che avremmo voluto potesse essere dimenticata, si è tentato di distruggere etnie intere e minoranze e popolazioni prive di un esercito con cui difendersi.

E, a leggere i resoconti, la stagista della Casa Bianca si è imbarcata in questa crociata anche con una buona dose di capacità espressiva: lo scorso anno un suo articolo comparso su Vanity fair riguardo la cultura dell’umiliazione fu segnalato – ebbe una nomination, scrivono i miei colleghi – a un premio di giornalismo. Non solo: nella relazione che ha svolto in uno di quegli encomiabili cicli di conferenze organizzati dal Technology Entertainment Design (Ted) dedicato a “Verità e coraggio”, dal titolo La cultura dell’umiliazione, Monica Lewinsky, avrebbe, stando a quanto riporta Federico Rampini su Repubblica, esibito una buona dose di ironia: «Sono l’unica quarantenne che non vorrebbe per nessuna ragione tornare ad avere 22 anni», avrebbe detto dinanzi ai suoi ascoltatori riferendo che a quell’età si innamorò del proprio boss imparando sulla propria pelle le conseguenze.

Ed ha aggiunto: «Chiunque soffra per la vergogna e l’umiliazione pubblica, deve sapere una cosa: puoi sopravvivere. È difficile. Non è indolore, né rapido, ma alla lunga puoi scrivere tu un finale diverso per la tua storia».

Cantava molti anni addietro Francesco Guccini in Eskimo: «Perché a vent’anni è tutto ancora intero, perché a vent’anni è tutto chi lo sa, a vent’anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell’età… ».

Il beneficio dell’inventario lo si deve perciò anche a lei, o più esattamente le attenuanti generiche. Monica Lewinsky ha ben ragione a sostenere le sue ragioni. Ma per quanto giovanile la stupidità va chiamata con il suo nome, sperando che non fosse opportunismo quello di allora, e nemmeno quello di oggi, il desiderio cioè di restare comunque, a tutti i costi, agli onori della cronaca o sotto le luci della ribalta. È bene che non ci siano macchie, e nella fattispecie è proprio quello di cui si tratta.

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