Il tam tam per Geronimo

Com’è lontano quel 7 maggio 2010 quando accesi un fuoco e, sventolando maldestramente una coperta come ancora non avevo imparato bene a fare, levai in cielo segnali di fumo tentando di chiamare a raccolta La tribù di Geronimo. Così si intitolava uno dei primi post pubblicati in questo blog, con cui annunciavo che di lì a qualche giorno i pellerossa che avevano scorrazzato nella prateria de l’Unità si sarebbero ritrovati per festeggiare un gran capo indiano in procinto di compiere 90 anni.

Bruno Schacerl

Quel leggendario guerriero, Geronimo, in realtà si chiamava Bruno Schacherl e per rendergli i dovuti onori si spinsero fin qui, in una storica casa del popolo fiorentina, due direttore del quotidiano comunista del calibro di Emanuele Macaluso e, soprattutto – lucidissima mente che testimonia quanto sia stolto chi vuol rottamare gli anziani – Alfredo Reichlin. Quest’ultimo è stato senz’altro quello che ha firmato la mia lettera di assunzione, essendo stato al timone del giornale fondato da Antonio Gramsci dal 1977 al 1981, quando appunto ebbi la fortuna di iniziare a lavorare lì; l’altro, Macaluso, deve avermi invece promosso caposervizio avendo diretto l’organo del Partito comunista, dopo l’infelice parentesi di Claudio Petruccioli con lo scivolone del caso Cirillo, dal 1982 al 1986.

A seguire Gerardo Chiaromonte, Massimo D’Alema, Renzo Foa, Walter Veltroni, Giuseppe Caldarola, Mino Fuccillo, ahimè Paolo Gambescia! e aritonfa Caldarola, invitato a spegnere la luce, prima di entrare in Parlamento, quando ormai avevano chiuso la porta in faccia a tutti noi redattori, segretari di redazione, poligrafici, per non riaprirla più non tanto a me, quanto a colleghi del calibro di Antonio Zollo, Morena Pivetti, Andrea Guermandi e molti altri bravi come loro.

A richiamare la mia attenzione su quello scritto dalla parte dei Cheyenne o dei Sioux di 5 anni fa, prima che perdessi il lavoro una seconda volta in vita mia e col benservito sempre di gente che diceva di star schierata con i lavoratori, è stata una e-mail del figlio di Bruno Schacherl, Stefano, il quale recentemente mi ha informato, supponendo che io già lo sapessi, della morte il 23 febbraio scorso dell’illustre e anziano collega, invitandomi a un momento di ricordo che vedrà insieme figli, parenti, amici ed ex colleghi e si terrà sabato 11 aprile alle 15 al circolo ricreativo di Brozzi, dove anche negli ultimi anni della sua vita, Bruno Schacherl deve aver continuato a dir con decisione quel che pensava.

Sono riandato dunque a rileggere quello scritto e mi riempie di orgoglio notare, scorgendo le firme di quanto ebbero a commentare on-line, che fui un buon tam tam: mi scrissero Pietro Spataro, Enrico Menduni, Franco De Felice, il coraggioso Francesco Matteini, l’anziano Francesco Canosa, il tenace Valerio Caramassi e le amiche Laura Cesqui, Fabiola Moretti, Cecilia Sandroni – che per l’occasione, con grande autoironia, si è prenotata per un coccodrillo da me scritto al momento della bisogna – Marina Tognoni e la signora Cristina.

Ma soprattutto, con mio grande orgoglio, quel gran signore garbato, acuto e lucido che è Giorgio Frasca Polara, che, sottolineando il carattere schietto e affettuoso del mio omaggio a Bruno Schacherl, colse l’occasione, si commosse per un mio “minuscolo ricordo”: «la tua telefonata serale per i titoli da locandina. Quante volte ho raccolto anch’io, bracciante della tastiera, le chiamate di Daniele…».

E poi ancora altri per posta elettronica o anche solo per sms, messaggi che mi premurai di stampare, consegnare a Carlo Ricchini – storico caporedattore centrale del giornale e artefice di quel compleanno pubblico – affinché, senza che io disturbassi Geronimo, il capo tribù, gli venissero consegnati per testimoniargli la stima e l’affetto nei suoi confronti, insieme ad una copia dei miei racconti appena usciti in libreria.

Riuscii a portare con me quel venerdì – il 14 maggio, tre giorni dopo il mio compleanno – al festeggiamento del Gran Capo, un giovanissimo amico di origini marocchine a cui, da allora, ho fatto scoprire, con un entusiasmo sempre crescente, un bel po’ di classici della letteratura e il mio primo grande amico d’infanzia il cui padre è stato un grandissimo fotografo e la redazione de l’Unità a Firenze doveva averla frequentata molti anni addietro. E poi, se non sbaglio, mio padre a cui piacerebbe certamente ancora molto poter partecipare ancor oggi, ma è passato molto tempo da quella primavera del 2010.

Ero sposato allora, in piena crisi matrimoniale, lacerato tra un affetto e una dedizione che ho buon motivo di credere mi hanno accompagnato e mi accompagneranno per il resto della vita ed una curiosità emotiva rivelatasi un fiasco su cui sorridere beffardamente. E poi ero alle prese con una malattia che ha radicalmente modificato il mio organismo, fortunatamente restando lì alla finestra ad osservarmi ancora. E infine, proprio il giorno in cui andai a festeggiare Geronimo, ho fatto i conti con l’ipocrisia, la pochezza, gli ignobili, verso i quali la mia distanza è totale e totale la soddisfazione di essere distante, su un altro pianeta.

Sì di tempo ne è passato, e nel frattempo, come Bruno, se ne sono andati in molti ed ogni volta ho sentito che la Terra ne era diminuita da quella zolla portata via dall’onda del mare, «come se un promontorio fosse stato al suo posto, o una magione amica o la tua stessa casa».

Io intanto ho capito qualcosa di più della respirazione, dell’ascolto, dell’umanità, del fatto di aver capito ancora pochissimo e di non aver tempo infinito per farlo. Ho dato alla parola pietà un significato più laico e proficuo di quello che me l’aveva fatta detestare per tanto tempo e di questa revisione concettuale credo ne abbiano beneficiato non poco i miei anziani genitori che si spingono anch’essi in prossimità dei novanta.

Ho scritto ancora e forse più di prima, invogliato ovviamente anche dall’aver pubblicato 3 libri che ho scritto per passione e non più per denaro (ma non senza passione), senza preoccuparmi di quella dose di narcisismo che consente di tuffarsi e a volte mescolare, come feci nel caso de La tribù di Geronimo, e forse sto facendo anche in quest’istante, il mio diario personale e la terza pagina di un quotidiano che non mi paga più per scrivere quel che si dice io sappia scrivere.

A Stefano Schacherl ho chiesto di scusarmi per aver usato in quello scritto di 5 anni fa su suo padre un registro da “blog personale”, mi verrebbe da dire “intimistico” ma sarebbe inappropriato, per il quale tuttavia sono stato rimproverato da chi, per promuovere la festa in onore di Bruno, chiese aiuto ad una sua allieva troppo impegnata a scodinzolare per rendersi disponibile ed io presi il testimone, pagandolo caro.

Stefano Schacherl ha voluto rassicurarmi: non irritai Geronimo. Fumerò dunque il calumet con me stesso. E penserò a Manitù.

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