Ingrao e il giovane cronista

Pietro Ingrao con i redattori dell'Unità

Domani Pietro Ingrao compie cent’anni. Molti ragazzi anche quarantenni e potenzialmente rottamatori, avvezzi al massimo ai Rutelli, agli Alemanno, alle Madia, alle Minetti, a cosucce insomma da due soldi ma con la griffe in bella mostra, probabilmente ignorano tutto di lui e, fossero interrogati sull’argomento, sbiancherebbero mettendo su un sorriso ebete.

Ho messo il link alla voce che gli dedica Wikipedia per chi avesse voglia di sapere qualcosa di più su di lui e, garantisco, merita, ma due tracce è bene le estrapoli qui: iscritto in gioventù al Guf, il Gruppo Universitario Fascista, già nel 1939, a 24 anni, cambia sponda e diventa antifascista, nel ’40 si iscrive al Pci, combatte nella Resistenza. Dal 1947 al 1957 è direttore de l’Unità e merita leggere il bel ritratto che Pietro Spataro, nel suo blog meritoriamente chiamato Giubberosse, gli dedica in questa veste, intitolandolo Quando Ingrao inventò l’Unità.

Ben presto membro del Comitato centrale del Pci, è stato deputato dalla prima alla decima legislatura, e, nel 1976 e fino al 1979, il primo comunista a presiedere la Camera dei deputati. Fra il 1989 e il 1991 è stato tra i più accesi oppositori allo scioglimento del Pci voluto da Occhetto con la svolta della Bolognina, e tuttavia fino al 1993 accettò di aderire al Pds per poi avvicinarsi e infine aderire a Rifondazione Comunista prima e a Sel poi.

Pietro Ingrao

Ha scritto numerosi libri fra i quali merita segnalare Crisi e terza via, intervistato da Romano Ledda (Editori Riuniti, 1978), La guerra sospesa (Dedalo, 2003), La pratica del dubbio (Manni, 2007), Indignarsi non basta (Aliberti, 2011) e soprattutto Masse e potere (Editori Riuniti, 1977) al quale molti della mia generazione si sono abbeverati.

Nel suo nome o in quello di Giorgio Amendola ci si divideva dentro al Pci tra chi stava a sinistra ed era ingraiano, chi stava a destra ed era amendoliano e chi, come me, al centro ed era berlingueriano. Discutevano animatamente e davvero avevano vedute molto distanti – Ingrao molto attento ai movimenti della società, Amendola ai rapporti con le altre forze politiche e alla rappresentanza nelle istituzioni – ma credo che nutrissero un reciproco rispetto e stima davvero ammirevoli soprattutto pensando alla pochezza e al vuoto della maggior parte dei politici d’oggi.

Più che il suo radicalismo a me di Ingrao affascinava l’inquietudine, il ricorso al dubbio.

Per stare al passo coi tempi dal 2014 ha un sito internet personale: www.pietroingrao.it.

Il mio amico Marco Fiorletta, che è stato a lungo il segretario di redazione dell’Unità, ha ripescato nella memoria qualche ricordo sparso su quell’indiscusso leader, intitolandolo con ironia Esagero, io e Ingrao.

Lo imito più che altro per mettere a disposizione di Ingrao stesso o di chi lavorerà alla sua biografia completa qualche piccolo materiale.

La prima cosa è un articolo che scrissi il 17 maggio 1982 e fu pubblicato, credo, in prima pagina (nell’archivio on line de l’Unità, purtroppo, quel numero manca), nel quale detti conto del fatto che Ingrao si servì di me, giovane cronista de l’Unità, per dar la sferza a quelli che fino a qualche anno prima erano stati i miei compagni di politica.

Il titolo era: Ingrao: «Perché l’Unità non si occupa di voi?»

Dalla nostra redazione
Firenze. L’obiettivo era puntato sui movimenti per la pace, nuovi protagonisti della scena politica a cui la Fgci fa ampio riferimento per spiegare, anche al partito, chi sono i giovani d’oggi: né rifiuti, né visionari utopisti, né incantati romantici stile «tempo delle mele» né travolti dalla disgregazione.
Il XXII Congresso provinciale della Fgci fiorentina ha dedicato buona parte dei propri lavori, durati quattro giorni, a questo fenomeno di massa delle nuove generazioni: il pacifismo. Ne ha parlato ampiamente il segretario provinciale Giuseppe Guida, nella sua relazione introduttiva, e ci sono tornati successivamente molti interventi.
È stato questo tema anche al centro del discorso di Pietro Folena dell’Esecutivo nazionale della Fgci che ha concluso il Congresso sottolineando l’insostituibilità dei giovani «nella ricerca della terza via». Folena ha detto che la conferma del ruolo di un’organizzazione giovanile come la Fgci sta nei mille interrogativi che i giovani si pongono, sul senso della loro attività politica, sullo scarto che c’è tra energie profuse ed obiettivi realizzati, sul bisogno di nuovi rapporti tra la gente nella sfera dei rapporti interpersonali come in quella politica. «Ma dobbiamo tradurre – ha detto Folena – questi nostri interrogativi, in una potente azione politica che incida sulle scelte del partito, del sindacato, degli enti locali in cui governano le sinistre». Ed ha aggiunto, per ridimensionare forse un certo «pessimismo» che serpeggiava negli interventi: «fra mille certezze che ci sono crollate, una ci è rimasta: quella che pensiamo con la nostra testa ed abbiamo le nostre idee».
Anche Pietro Ingrao, che ha seguito i lavori del Congresso intervenendo a conclusione, si è soffermato sui movimenti per la pace, sui limiti che questi talvolta hanno nell’individuare tutti i passaggi di una strategia che concretamente porti al disarmo. Ma gran parte dell’intervento di Ingrao si è incentrato sulla necessità per un’organizzazione come la FGCI che vuole essere di massa, di costruire «lotte, forze e strumenti capaci di pesare, in una fase in cui lo scontro si sta duramente inasprendo, in un mondo in cui sempre più contano organizzazioni della cultura, mezzi di comunicazione, poteri reali».
Inevitabile il richiamo alla vicenda dei contratti, all’assassino del compagno La Torre, ai conflitti internazionali. «Questa capacità di pensare – ha detto Ingrao – ve la dovete guadagnare, anche quando si tratta di forze a voi assai vicine. Lo vedo anche nello svolgimento del vostro Congresso. Stamane sono presenti in questa sala, mentre parlo io, compagni amministratori molto autorevoli e di cui io ho molta stima. Vi ringrazio molto di questa presenza. Ma ieri e l’altro ieri era proprio impossibile che fossero presenti ad ascoltare, a discutere o anche a obiettare e criticare?».
Ingrao si è poi rivolto alla Fgci: «Ma voi però avete chiesto, premuto, per essere ascoltati e capiti, per alimentare un dialogo concreto, per spingere così ad una trasformazione anche delle istituzioni a noi più vicine?».
Ingrao ha proseguito richiamando la Fgci «a guadagnarsi un miglior ‘potere contrattuale’ anche verso il giornale del partito l’Unità.» «Se non sbaglio – ha detto Ingrao – l’Unità, nella sua edizione fiorentina che ho visto, non ha pubblicato nulla del vostro Congresso, salvo l’annuncio del mio intervento. Credo che l’Unità debba decidere, da sé dell’uso del suo spazio, senza pressioni burocratiche e rituali. Ma poco fa, un redattore dell’Unità, gentilmente mi ha chiesto se volevo che qualche passo del mio intervento fosse pubblicato sul giornale di domani, mettendomi così a disposizione, ripeto gentilmente, uno spazio del nostro giornale. Ritengo francamente che sia assai più utile conoscere ciò che hanno detto di buono e di non buono, di nuovo e di risaputo, i giovani della Fgci; e non per rito, ma perché questa conoscenza può aiutarci a capire quel che succede nelle nuove generazioni; e di ciò abbiamo molto bisogno, come comunisti e come uomini del nostro Paese.
Soprattutto mi pare che serva molto meno pubblicare qualche valutazione mia, se manca del tutto una informazione anche sobria di ciò che hanno detto i primi protagonisti di questo congresso. Esprimo cioè l’opinione che in questo caso la scelta dell’Unità non sia stata la più giusta. Ma in questo episodio mi pare ci sia anche un limite, una debolezza della Fgci. Anche in questo si esprime – ha detto infine Ingrao – ciò che ho chiamato debole “potere contrattuale” della FGCI».

Daniele Pugliese

Pietro Ingrao con Palmiro Togliatti il 30 settembre 1946

Il secondo documento è una versione non definitiva della tavola rotonda con Ingrao ed una ragazza del movimento pacifista che si dette appuntamento al Social forum di Firenze nel 2002 che io e il portavoce di Claudio Martini – non ne nomino il nome essendomi sbagliato a considerarlo un amico – e probabilmente un altro, registrammo, trascrivemmo ed inserimmo in uno dei due libri (Capaci di sognare, Baldini Castoldi Dalai 2003) che l’allora presidente della Regione Toscana ci fece scrivere firmandoli di suo pugno. Eccola, in tutta la sua lunghezza:

Martini – Una cosa mi ha colpito nel movimento che ha dato vita alla grande manifestazione per la pace del 9 novembre a Firenze e poi a quella del 15 febbraio a Roma: il suo carattere davvero trans-generazionale. Ci sono tre generazioni che si ritrovano. Di più: trans-generazionale e trans-culturale. Per me questo è un elemento di grande diversità da altre esperienze. Io ne ho fatte tante di manifestazioni per la pace, ma queste davvero sono state qualcosa di più. Penso che potremmo partire da qui, dal fatto che Vanessa Turri, Pietro Ingrao ed io abbiamo età e storie diverse, molto diverse ed eravamo però tutti a quella manifestazione.
Comincio a dire la mia impressione. Io ho visto questo movimento per la pace meno ideologico e meno legato ai partiti rispetto ad altri, meno unilaterale, molto più libero culturalmente. Addirittura l’ho sentito molto meno anti-americano.
Ecco, credo che potremmo partire da qui.

Ingrao – Senza dubbio la differenza tra questo movimento e quelli che, per esempio, sono scesi in piazza per il Vietnam o per l’installazione dei missili a Sigonella è assai forte. C’è questo elemento dell’età che tu coglievi e che mi ha molto impressionato; non solo tanta gente, ma effettivamente tanti giovani, anche tanti giovanissimi, una generazione che per me era palesemente nuova.
Io ho vissuto con sorpresa, soprattutto quella mattina in cui partecipai al dibattito alla Fortezza da Basso su ….., il fatto che la sala fosse gremita all’inverosimile. Che ci fosse una straordinaria attenzione. Non era affatto scontato per me. Non solo per la differenza di età che avevo con quella platea, ma per il fatto che questa generazione nuova, appena comparsa sulla scena della vita politica, avesse segnato volutamente un distacco con altre generazioni e con il modo in cui queste avevano in precedenza partecipato alla vita politica. Erano insomma un altro mondo, i segni che ce lo dicevano erano tanti.

Quell’attenzione che c’era in sala, quella volontà di ascoltare e persino di registrare, di appuntare, di annotare, e per di più uno come me, che era molto consumato, non solo palesemente dall’età, ma anche da quel che sono stato, dalle cose che ho vissuto, dalle speranze che ho riposto, mi hanno molto colpito.
Devo dirlo: mi hanno colpito e sorpreso. Perché io avevo in testa un movimento di strada, propenso allo scontro di strada, direi immediato. E invece stavano lì, dentro quella sala, con un’attenzione addirittura scrupolosa, mostrando curiosità.
Dinanzi a quel pubblico io ho cercato di sollevare una questione. La questione di come un movimento possa incidere sui poteri, sul sistema dei poteri. E’ una questione che a me non sembra ancora risolta.
Avevamo un evento di grande novità, colto da tutti, anche dagli avversari. Manifestazioni così grandi e sparse in tutto il mondo, non si erano mai viste, o almeno non si vedevano da molto tempo e comunque non in quelle forme. C’era un nuovo soggetto, anzi, una nuova soggettività che ormai avanzava in modo clamoroso sulla scena politica. Queste masse di giovani avevano un peso innegabile nel mondo, perché a partire da Porto Alegre, da Seattle, ecc., avevano parlato al mondo. E il fatto che fossero riusciti a parlare al mondo in una situazione in cui il capitalismo ha nelle mani così fortemente la società, era una cosa che stupiva già di per sé. Stupiva che ci fosse stata una capacità di irruzione sulla scena così impressionante e così potente.
Tutto questo era innegabile, ma restava da capire in che misura questo movimento così possente e anche così fresco nella volontà di ascoltare, affrontasse il problema di come incidere sul potere.
La questione del sistema dei poteri è al centro della mia attenzione da tanto tempo, e su di essa ho una convinzione che mi porto dietro: non credo e non ho mai creduto a una politica “non strutturata”.
Per spiegarmi: non condivido affatto il pensiero di Tony Negri, quel suo rappresentare la società e il mondo come un binomio con la moltitudine da una parte e ….. dall’altra. Io sono convinto che il capitalismo sia ancora adesso molto articolato e non riconducibile ad una indifferenziata entità, ad uno schema, ad una sola sigla. E’ un capitalismo duttile, complicato, capace di variare, di mettere in campo anche novità straordinarie, basta guardare al livello raggiunto dalla guerra.
La complessità e l’articolazione del sistema di poteri ha assunto caratteri nuovi e una dimensione sorprendente. L’impero americano – se lo vogliamo chiamare così – o l’imperialismo americano che ha vinto la guerra si è trovato però di fronte un mondo che non è tutto riducibile a un blocco. Non solo: un ruolo durante la guerra lo hanno svolto, almeno in parte, anche alcune istituzioni parecchio consumate. All’Onu c’è stata una battaglia e lì gli americani hanno trovato un intoppo. Lo stesso tentativo di configurare uno schieramento europeo, di affermare un’idea di Europa, va preso in considerazione, valutato come un elemento del gioco. Sarà stato anche solo il vecchio asse franco-tedesco, se si vuole, ma è pur sempre stato qualcosa.
E che dire della Russia di Putin? A me non sta affatto simpatica, e come me molti la davano ormai come una nazione prona al potere americano, al vincitore. E invece no, ci ha riservato delle sorprese. Ha operato, ha marcato una sua posizione differenziata, non è stata nel blocco. Per non parlare poi delle varianti che riguardano quell’entità indicata in modo molto sommario come mondo musulmano e superficialmente o strumentalmente identificata tout court con il terrorismo. E’ un mondo che io conosco molto poco, lo confesso, ma che non può essere appiattito o non considerato.
Ecco, è a questa articolazione della politica che io credo si debba prestare maggior attenzione. Con essa, credo, il movimento della pace debba fare i conti. E partendo da lì, dai diversi livelli di potere, credo che il movimento possa valutare come interviene nella politica e nei processi che contano.
Io vengo da una vecchia storia e sono anche disposto ad accettare che la si chiami illusione. Nutro da tempo la passione per l’autonomismo. Martini lo sa: ai miei tempi ho fatto una grande battaglia sulla questione dell’istituzione delle Regioni, nella convinzione che anche questa dimensione statale, così tipica poi della moderna Italia e che allora non era affatto scontata, trovasse il suo spazio.
Non ho bisogno di dirlo a chi viene dalla Toscana, ma negli anni Settanta c’erano esperienze straordinarie, città, città-simbolo che erano realtà dinamiche a cui guardare con fiducia, con speranza, e su cui si fondava la mia battaglia per l’autonomismo in un Paese come l’Italia. E lo stesso discorso lo si poteva fare guardando all’estero.
Ora, la domanda che io posi allora, la ripropongo oggi: il movimento è disposto a misurarsi con questa complessità della politica? La terribile vittoria americana è riuscita a cancellare tutte le diversità, la complessità? Il movimento si rende conto che la violenza con cui l’imperialismo americano vuole cancellare le diversità, mostrata soprattutto quando l’Onu non ha operato così come avrebbero voluto, costringe a prendere atto della complessità?
Io mi aspetto che dopo la sconfitta dei pacifisti determinata dalla guerra in Iraq, ci sia una ripresa del movimento ma con più attenzione all’articolazione dei poteri e alla complessità della politica, su cui si può e si deve far leva nella fase nuova dello scontro che è aperto nel mondo.
Ho partecipato con ansia al corteo che c’è stato a Roma dopo la presa di Bagdad e avevo una grande paura. E invece il corteo mi ha riempito di gioia. Però poi, tornando a casa dopo quelle ore così emozionanti, così appassionanti, quella domanda mi è tornata alla mente e continua ad assillarmi. Da dove si riparte per modificare lo stato delle cose dopo la vittoria indubbia che gli americani hanno riportato in quella zona cruciale del mondo?

Turri – Io non vedo la questione della differenza generazionale. E’ vero, fra generazioni diverse ci sono differenze di visione delle cose, ma anche all’interno di una stessa generazione. Io faccio parte del movimento dei disobbidienti e lì ci sono persone che come hanno meno di vent’anni e altre che hanno passato la cinquantina. L’incontro generazionale c’è se c’è l’incontro di vedute. Io credo che invece, in quello di cui stiamo parlando, ci sia una differenza di fondo proprio nella visione delle manifestazioni del potere politico. Direi che è sul contatto con i poteri politici che abbiamo posizioni diverse.
La nostra diffidenza nei confronti del modo di fare politica così come lo tratteggia Ingrao, nasce dal fatto che, secondo noi, non c’è possibilità di mediazione fra una politica che vuole difendere i diritti della persona e una politica che punta solamente al progresso.
Fino a uno o due decenni fa, i luoghi di discussione e di moderazione fra le varie parti politiche erano i parlamenti statali, nei quali appunto avveniva la mediazione fra interessi padronali e capitalistici da un lato ed esigenze sociali dei singoli cittadini dall’altro.
La necessità della mediazione è venuta meno anche per un altro fattore. Quando le industrie hanno iniziato a cercare manodopera a basso costo all’esterno dei singoli Stati e sono cominciate a nascere le grandi multinazionali che si spostavano a seconda della localizzazione della manodopera più conveniente, il capitalismo non ha più avuto bisogno di arrivare a una mediazione con le popolazioni che chiedono il riconoscimento di determinati diritti. Così, anche il ruolo dei Parlamenti è completamente mutato, perché è venuto meno il suo essere luogo di moderazione fra diverse visioni politiche, assumendo invece quello di luogo di attuazione del volere di questi organi di decisione sovrastatale. Dunque non sono più i Parlamenti a decidere, ma i singoli governi nell’ambito di quegli organismi sovranazionali di cui essi stessi fanno parte che però né sono stati eletti, né sono sottoposti ad alcun controllo democratico. Ma le decisioni di questi organismi sono vincolanti per gli Stati e diventano operative a livello sociale all’interno di ogni singolo Paese senza che alcun Parlamento possa incidere su quelle decisioni prese altrove. Ecco perché, secondo noi, non c’è possibilità di mediazione fra la difesa dei diritti dell’uomo che costituisce la nostra politica e la politica intesa invece solo come salvaguardia del profitto e del capitalismo.
Qui il movimento si scontra con i partiti che si trovano in Parlamento, per il fatto che essi non sono più interessati ad aprire il dialogo con le parti sociali, in quanto queste non contano nulla all’interno del mercato, ma sono solamente interessati al dialogo con quelle potenti strutture sovrastatali e imperialiste.
Io mi trovo in disaccordo con il signor Ingrao anche quando parla di capitalismo americano o di imperialismo americano. Per me esiste un imperialismo sovrastatale, che va oltre gli Stati Uniti. Un imperialismo organizzato da diversi organi decisionali.
La difficoltà di entrare in contatto con la politica istituzionale nasce da una questione di fondo: per noi è impossibile scendere a compromessi con questa visione del mondo di sfruttamento delle risorse umane del mondo. Perciò ci troviamo in netto contrasto con il modo in cui è organizzata la politica e i diversi livelli di potere che si trovano nei singoli Paesi.
Un’ultima cosa: io non sono d’accordo con Martini quando parla dell’esperienza del Social Forum di Firenze come di un’esperienza magistrale, assolutamente grandiosa e unica. Dal mio punto di vista fa semplicemente parte di un percorso avviato a Seattle e scandito da tanti appuntamenti, tra cui Firenze, dello stesso livello, importanti, grandiosi e magistrali. Non vedo questa unicità dell’evento fiorentino. Per me sta nel contesto globale, in quella globalizzazione che noi viviamo in termini completamente opposti rispetto a quella capitalistica: la convergenza a livello internazionale delle lotte sugli stessi obiettivi.

Martini – Vanessa ha ragione quando dice che il Social forum di Firenze fa parte di un percorso generale; però a Firenze ci sono stati due elementi caratteristici. Io non dico assolutamente che siano elementi tipici fiorentini. Ma dico che a Firenze hanno trovato la loro espressione. Il primo è l’ampiezza della partecipazione, il secondo è l’atteggiamento verso la violenza.
Quanto al giudizio sulla politica penso che un movimento radicale, che ha obiettivi radicali di trasformazione, abbia naturalmente un rapporto non facile con la politica, anche con quella di sinistra, perché la politica ha le sue regole ed il suo compito è quello di trovare degli sbocchi reali. Però, se riflettiamo sull’esperienza fatta, possiamo dire che senza dialogo tra movimento e politica, l’esperienza di Firenze non si sarebbe fatta o comunque non nel modo in cui si è fatta. Credo che di quell’esperienza si dovrebbe fare tesoro, non solo per organizzare un altro avvenimento simile, ma proprio come scelta di fondo. Credo che a quell’esperienza debbano guardare con attenzione tanto la politica quando i movimenti.
Secondo me, il modo con cui si è organizzato il Social forum di Firenze è stato paradigmatico del bisogno di dialogo che esiste tra questi due mondi ed anche dei limiti di entrambi questi mondi. In passato c’è stato un momento – Ingrao che ha militato per tanti anni nel mio stesso partito lo ricorderà – in cui la politica, quella strutturata dei partiti e delle organizzazioni, è stata capace di riassumere tutto quello che c’era, di farsi anche interprete del soggettivismo delle persone. Oggi non è più così: esiste una crisi della politica, di cui forse non si sono ancora fatte sufficienti analisi, ma che appare evidente quando c’è la disaffezione dei cittadini al momento del voto. Di quella crisi però, passate le elezioni, ci si scorda, ma non per questo smette di esistere. Parallelamente c’è una ripresa, in forme nuove, di un movimento.
A Firenze, in occasione del Social forum, è stato il dialogo tra istituzioni e movimento sulle piccole cose – scegliere il luogo, far aprire le case, trovare i soldi – e ancor più sulle grandi questioni – come respingere l’attacco che c’è stato da parte del governo l’ultimo mese per cercare di impedire l’organizzazione del forum – che ha consentito di risolvere i problemi pratici e anche tutte le questioni politiche di fondo.
La mia tesi è questa: il movimento non può diventare politica e la politica non può trasformarsi in movimento, però queste due dimensioni devono dialogare.
E allora credo sia giusto rispondere alla domanda posta da Ingrao quando chiede se il movimento si pone il problema dello sbocco politico. Se non riusciamo a dare una risposta il movimento rischia di essere “una testimonianza all’infinito”. Ma c’è anche un’altra domanda alla quale va data una risposta: quand’è che la politica sentirà il problema di mettersi in maggior sintonia con questi movimenti? Io credo che questo movimento non sia un fatto episodico. Sono invece dell’idea che si tratti di qualcosa che durerà e che è bene duri a lungo. Perciò penso che la politica abbia bisogno di mettersi in sintonia con esso e di trasformarsi. Penso anche che la capacità di dialogare con questo movimento non ce l’abbia una politica qualunque o la politica in maniera indistinta.
Si è vero, nei mesi che hanno preceduto Firenze e ancor di più prima di Genova, anche la sinistra non ha saputo tener desto questo dialogo. Ma certamente l’attenzione che c’è stata, e c’è stata, non appartiene a tutta la politica. Insomma io credo che la politica sia una cosa articolata, così come articolato è il movimento. Quello che Ingrao diceva del capitalismo, vale anche per la politica ed il movimento. All’interno di questi ci sono tante cose, così come tante cose ci sono dentro al capitalismo.
Ma c’è un elemento che dobbiamo considerare. Questo movimento esplode a Seattle e poi si sviluppa dopo vent’anni di cultura egoistica, liberista e fortemente individualistica. Una cultura secondo la quale è importante che tu vinca, che tu ti affermi, che tu abbia successo, senza curarti di quello che costa o di quello che comporta; basta che tu riesca; se devi fregare il fisco o lo Stato per questo, non importa.
Ebbene, nonostante vent’anni di questa politica, il movimento è tornato fuori con un’espressione culturale antitetica.
Com’è accaduto questo? Dove affondano le radici di questi valori?

Intervento – Posso aggiungere una connotazione, forse ancora più negativa?
Questo movimento ha portato nelle piazze milioni di persone; fino al 15 febbraio, la seconda potenza mondiale, centodieci milioni di persone in piazza. Mi sembra che non solo i partiti, ma chi ha il potere sia abbastanza indifferente, cioè la C.G.I.L. può portare tre milioni di persone al Circo Massimo, ma sull’articolo 18 sono andati a diritto. I centodieci milioni di persone non hanno fermato la guerra, possiamo dire che ci hanno provato, però, se seconda potenza mondiale è, è una seconda potenza che ha perso questa battaglia. I giornali americani dissero che il 15 febbraio, quando contemporaneamente per la prima volta nella storia contemporanea, in tutto il mondo, milioni di persone sono scese contro la guerra e in molti Paesi, soprattutto in Europa, queste persone erano davvero la maggioranza o esprimevano la maggioranza della popolazione, è stato ignorato dal potere mondiale; al pari in Italia – forse non è la maggioranza – i milioni di persone che sono scesi in piazza dopo Genova sono stati ignorati.
Questa è un’altra connotazione che volevo inserire in questo discorso.

Ingrao – Io vorrei soffermarmi su quello che diceva Vanessa, perché su un punto diamo senz’altro una lettura diversa. Forse sbaglio, ma se dovessi definire in due parole l’immagine che dai del capitalismo, direi che potrei chiamarlo un capitalismo nudo. Voglio dire un capitalismo allo stato puro, capitalismo e basta. Questa è l’idea che, a me pare, il movimento, o almeno molti di coloro che ne fanno parte, hanno del capitalismo: il nemico. Io invece non riesco a pensare a un capitalismo senza Stati, senza partiti, senza sindacati, senza ideologie, senza strutture ideologiche, senza sistemi formativi. E perbacco quanti di questi ne mette in campo, quanti ne tiene nelle mani!
E penso inoltre che ci siano anche altre cose che il capitalismo non tiene tutte nelle mani, che in parte gli sfuggono. Ridurre il capitalismo solo alle grandi centrali economiche porta a dimenticare, per esempio, il peso enorme che hanno le Chiese nel mondo. Credo che non si possa dimenticare che Bush si è rivolto alla Chiesa presbiteriana americana, la quale è entrata in campo e ha agito in un modo ben preciso.
Se non si parte da questa nozione più complicata e anche più ricca del capitalismo, se si cede alle semplificazioni rozze, il movimento non regge, è destinato ad andare incontro a sconfitte come quella pesante che ha subito quando è stato attaccato l’Iraq: perché non possiamo ignorare il fatto che l’America di Bush voleva mettere le mani sull’Iraq e le ha messe, c’è riuscita. Sono andati e sono entrati e questo anche in ragione della struttura, affatto semplice e tuttaltro che rozza, che sono riusciti a mettere in campo.
Ecco, la risposta a questa sconfitta, a mio parere, non può nascere, se non si allarga la riflessione del movimento su questa che si può chiamare molto semplicemente la complessità della politica, del capitalismo, del capitalismo americano.
E’ troppo elementare la simbologia che suggerisce nel suo libro uno come Tony Negri, quella dell’impero da una parte e della moltitudine dall’altra. No, non c’è l’Impero, con la I maiuscola; c’è quell’impero americano, che è impero in un modo molto preciso, diverso da come lo era stato precedentemente con Clinton, e così via.
E neanche la moltitudine esiste come entità conclusa, definita. Se guardiamo all’Italia in questo momento, che piaccia o meno, la sinistra e lo stesso movimento stanno andando divisi, drammaticamente divisi, alla prova del referendum.
Ci vogliono, dunque, letture più ricche della realtà. Io sono stato uno di quelli che considerano una vergogna le condanne a morte recentemente emesse a Cuba, e continuo a pensare che siano una vergogna, anche se alcune persone, anche una parte dei miei amici, mi dicono che sbaglio, che le mie sono stupidaggini. E invece no. Se anche lì, su quel terreno, lasciamo agli americani la bandiera della condanna e dell’indignazione, e non abbiamo il coraggio e l’onestà di riconoscere che quello sì è un pezzo di mondo oppresso dall’impero americano, ma che a questa oppressione dà una risposta cupa e assolutamente sbagliata… ecco, se non abbiamo questo coraggio e questa onestà e questa articolazione di giudizio, non andremo da nessuna parte, non faremo alcun passo avanti. Fare i conti con la politica è avere questo coraggio e questa onestà.

Turri – Ma quale semplificazione rozza del capitalismo? L’interpretazione che io do di questo tipo di capitalismo è anzi assolutamente complessa. Questo capitalismo, che sarebbe forse più giusto chiamare neo-liberismo, sta cercando di imporre un nuovo ordine a livello mondiale, che, per poter esistere, ha bisogno, da una parte di precarietà e, dall’altra del depotenziamento di tutti i luoghi della mediazione politica, a cominciare dai Parlamenti nei singoli Stati. Negli ultimi anni, in Italia e nel mondo, i governi sono diventati il braccio esecutivo del nuovo ordine dettato dall’alto da organi di potere internazionale come il WTO, il Fondo monetario internazionale. A livello statale la politica è diventata solo funzionale alla politica neo-liberista. I governi non fanno altro che tradurre in atti concreti e leggi questa impostazione economica: ecco allora leggi come la Turco-Napolitano prima o la Bossi-Fini poi sugli immigrati, la riforma Berlinguer prima e quella Moratti poi sulla scuola. E se ne potrebbero citare tante altre. Stesso discorso sulla questione dell’articolo 18: tre milioni di persone sono scese in piazza, ma il centro-sinistra dice ai propri elettori di astenersi in occasione del referendum.
Mi chiedete se vogliamo trovare uno sbocco politico. Certo che lo vorremmo, se il Parlamento fosse il luogo di rappresentanza del popolo e non il braccio esecutivo di un ordine precostituito dall’alto.
Quanto poi alla questione del dialogo io credo che lo si possa trovare quando i contenuti di fondo sono gli stessi. Siamo tutti d’accordo nel dire no alla guerra ma le divergenze vengono fuori quando dobbiamo andare a discutere qual è l’idea di pace. Certo, il dialogo va tenuto aperto e noi lo teniamo aperto, su questo non c’è assolutamente nessun problema anzi siamo i primi a riconoscere che la contaminazione intellettuale è alla base della lotta politica. Ma il problema è quando le divergenze sono profonde: quando si accetta la creazione dei centri di detenzione permanente per gli immigrati, una sorta di Guantanamo a livello italiano, il dialogo sinceramente è difficile da mantenere, la collaborazione quasi impossibile.
Noi il bisogno di dialogo ce l’abbiamo da tanto, da Seattle. Lo abbiamo sentito prima di Genova. A Firenze abbiamo solo trovato la risposta a questo bisogno di dialogo, ma lo ripeto, per noi è solo una pagina. Sono tutte esperienze che ci hanno cambiato dentro: non solo quelle dove esistono luoghi di confronto e di dialogo, come Porto Alegre o Firenze, ma anche in tanti altri luoghi.
E’ in questi luoghi dove i poteri istituzionali non entrano che si sviluppa la mente del movimento, perché a differenza delle istituzioni questo movimento fa veramente parte del popolo, è a contatto con essa.
Ribadisco quello che ho già detto prima: questo ordine nuovo neo-liberista non ha alcun bisogno di entrare in contatto e cercare una mediazione con le parti sociali, è assolutamente indifferente nei nostri confronti, perché i propri obiettivi li raggiunge comunque, anche senza entrare in contatto, anche senza dialogo.
Quanto alla sconfitta del movimento che si oppone alla guerra, secondo me essa non consiste tanto nel fatto che la guerra si sia comunque fatta: sinceramente pochi credevano che il movimento avrebbe potuto fermarla, e del resto la repressione a cui il movimento è stato sottoposto fin dal suo nascere era già la dimostrazione che la nostra voce non è assolutamente tenuta in considerazione. La sconfitta del movimento per la pace, almeno per quanto riguarda l’Italia, consiste semmai nel fatto che il “no” alla guerra dato dai tre milioni di giovani il 15 febbraio e poi nella manifestazione subito dopo la presa di Baghdad, è stato un “no” alla guerra generalizzato, un “no” rispetto agli orrori che una guerra può produrre, non un “no” alla guerra neo-liberista, alla guerra globale e permanente che adesso sta in Iraq, ma che prima era in Afghanistan e fra poco sarà in altri luoghi.
Questa, secondo me, è la sconfitta del movimento, che non è riuscito a trasformare il “no” alla guerra generalizzato in un “no” alla guerra globale e permanente causata da un determinato ordine economico, sociale e politico che porterà ad avere continue guerre per imporre un impero che si propone di portatore democrazia ed in realtà porta solo distruzione.

Ingrao – Io non condivido affatto la tua analisi dei governi e dei parlamenti come bracci esecutivi del potere delle multinazionali. Non c’è davvero questa identificazione così stretta, ma semmai diversità ed articolazioni. Ci sono governi e Parlamenti che hanno resistito alla pressione americana e questo non possiamo dimenticarlo. Così come non si possono mettere su uno stesso piano, restando in Italia, Giorgio Napolitano, per quanto sia stato favorevole alla guerra, con Berlusconi, che nei riguardi della guerra ………………. , perché le letture che i due hanno dato dell’evento sono assai diverse.
Così come sul paragone che tu fai con Guantanamo, che è una cosa terribile, noi possiamo anche dire che il sistema giudiziario italiano abbia molti difetti, ma non possiamo assolutamente paragonarlo a Guantanamo.

Turri – Ma io non mi riferiso al sistema giudiziario italiano, ma ai centri di permanenza temporanea per gli immigrati previsti dalla legge Bossi-Fini che in realtà sono luoghi di detenzione in cui si può rinchiudere una persona senza che abbia compiuto un reato, ma solo perché si vuol applicare una politica di repressione.

Ingrao – D’accordo, ma non si può mai tracciare un quadro univoco, fatto di un solo colore. Anche il neo-liberismo che per te costituisce il soggetto del male su questa terra non agisce senza mediazioni, come sostieni. A me sembra che non sia tutto così assoluto e così secco e che se non si identifica l’avversario nella sua molteplicità, non si capisce poi la ragione per cui invece certe cose passano e finiscono per vincere, c’è poco da fare.
La botta in Iraq l’abbiamo presa, ma lì non si è trattato solo come tu dici di uno scontro contro il neo-liberismo, ma anche, per esempio, di di uno scontro con quelle correnti non neo-liberiste, che esistono nel mondo musulmano, alcune persino fondamentaliste, che hanno favorito alla fine il gioco di Bush e la sua vittoria in Iraq.
Un’ultima cosa. Vorrei capire se una regione come la Toscana, può, dinanzi ad grande conflitto come quello che c’è stato in Iraq, svolgere un ruolo, fare qualcosa, incidere sulla realtà. Se può fare qualcosa ed aiutare quello che viene chiamato il “movimento dei movimenti”, vuol dire che in questa maggior complessità delle cose degli spazi esistono.

Martini – Certo che può fare qualcosa. Di più: ha fatto molto. Non parlo solo dell’istituzione Regione, ma della Toscana. Tanto per dirne una: ancora oggi in Toscana le bandiere della pace sono ancora tutte attaccate alle finestre, ai balconi, nessuno le ha tolte. A me questo sembra un segnale importante e non casuale. Non ferma la guerra, no, ma testimonia qualcosa.
Così come mi sembra significativo che la giunta regionale abbia sottoscritto un documento con la conferenza episcopale toscana, in cui tra l’altro c’è un rifiuto di principio nei confronti della guerra e si prendono impegni ben precisi che coinvolgono l’intera comunità regionale per raccogliere aiuti a favore delle popolazioni colpite da conflitti.
Io non sono esattamente d’accordo con voi sul fatto che il movimento abbia perso perché Baghdad è stata presa. Non credo che si possa considerare questa una sconfitta, anche se giustamente dobbiamo chiederci cosa fare perché la protesta, i sentimenti comuni, le speranze di milioni e milioni di persone possano trovare sbocchi concreti e tradursi in realtà.
E’ vero, il movimento non ha ottenuto quello che voleva, ma è ancora in piedi e quando io incontro i giovani che mi chiedono che cosa si può fare ora io rispondo che chi si batte per la pace non perde mai e però deve sempre continuare.
Se vogliamo discutere sulle ragioni o sulle cause di questa “sconfitta” io credo che dovremmo prendere in considerazione il fatto che se la battaglia sulla pace è stata persa ciò è avvenuto non nei sei mesi in cui si è combattuto contro l’eventualità di un intervento in Iraq, ma prima, in tempo di pace, quando non si è riusciti ad affermare una cultura della pace intesa come mantenimento ed estensione della pace, come sviluppo della cooperazione e della solidarietà. Qui direi che c’è stata una carenza di natura culturale, sul piano delle idee. Parlo di un pacifismo non dettato dal no a una o alla guerra, ma dal sì alla pace. Per essere ancor più precisi ritengo che il punto di crisi sia stato quando non si è riusciti a far comprendere che la risposta al terrorismo internazionale non poteva essere una risposta violenta che usava la stessa arma contro la quale voleva combattere.
Io sono convinto che ci sono questioni come quella della democrazia anche in quelle aree del mondo dove esistono regimi, o dove è forte il contrasto fra fondamentalismi e fanatismi di varia natura, che richiedono un impegno più puntuale, coerente e costante. Oppure la questione legata alla globalizzazione senza regole su cui si è registrato per molto tempo da parte della politica inerzia ed assenza.
La possibilità di recuperare su temi come questi anche all’indomani della guerra in Iraq esiste, a partire da una questione che si è riproposta con assoluta forza: quella del ruolo delle Nazioni unite.
E’ un organismo che almeno sulla carta potrebbe svolgere un ruolo tanto nei processi di estensione della democrazia, quanto nella gestione delle tensioni e delle controversie internazionali, quanto, infine, nel fissare regole al processo ineluttabile di globalizzazione, garantendone il rispetto.
So bene che sul nuovo ruolo delle grandi assemblee internazionali, a cominciare dall’ONU, prevale un orientamento pessimista e rinunciatario, che scarta l’ipotesi di poterle riformare. Ma la politica deve porsi anche obiettivi che, per quanto giganteschi, sono doverosi. Di più sono possibili: proprio la vicenda dell’Iraq ha messo in luce che l’ONU ha svolto e può svolgere un ruolo fino a poco tempo fa inimmaginabile. Si dava per scontato che Bush avrebbe comprati tutti. E invece non è accaduto; l’ONU ha detto no. E questo ci dice che c’è uno spazio aperto, su cui si può lavorare.
Ora io credo che il movimento abbia il merito di aver posto all’attenzione obiettivi forti, che appaiono impossibili, anche se talvolta senza riesce a identificare i percorsi che, invece, possono renderli possibili. Di più: direi che la loro testimonianza è anche testimonianza della necessità di avere passione, volontà e impegno, perché senza di queste non si possono affrontare obiettivi tanto ambiziosi, globali. Certo, c’è bisogno di analisi più complesse, ed anche di quella pazienza che in politica è necessaria per raggiungere un obiettivo, ma bisogna riconoscere che la radicalità del movimento, tutto sommato, e il fatto che rappresenti una così grande parte dell’opinione pubblica nel mondo dice alla politica che è possibile darsi traguardi alti. Dice che il riformismo oggi deve guardare lontano, non ad una mediocre sequenza di piccolissime cose che in fin dei conti non spostano niente.
Allora è sotto questa luce che, per tornare alla domanda di Ingrao su cosa propone la Regione Toscana, bisogna leggere, per esempio, il lavoro che abbiamo iniziato due anni fa fatto a San Rossore: un luogo di progettazione dove temi fondamentali – pace, democrazia, diversa globalizzazione, cooperazione internazionale, formazione, comunicazione – vengono messi al centro di una sperimentazione politica continua e di un lavoro culturale che abbiamo portato anche, facendone parte, nella Convenzione europea.
L’emendamento che ho proposto insieme ad altri sul rifiuto della guerra come mezzo di soluzione delle controversie è frutto del dialogo avviato dalla Regione Toscana con il movimento che ha avuto nella vicenda del “social forum” di Firenze una delle pagine più significative. Quel dialogo tra istituzioni e movimento è rimasto in piedi anche dopo il Social forum ed è un dialogo fondamentale, perché oggi una politica che non si confronti con il movimento rischia di essere solo palazzo e un movimento che non si ponga il tema dello sbocco politico nelle sue riflessioni è pura piazza o strada. Non bastano né l’una né l’altra e questo è il lavoro che oggi noi proviamo a fare.

Turri – Io mi trovo completamente d’accordo. Il movimento è aperto al dialogo con le istituzioni se queste sono aperte al dialogo con il movimento. E mi trovo d’accordo anche sul fatto che la lotta del movimento debba svilupparsi su due strade: quella a livello globale che si concretizza nelle proteste e negli incontri che il movimento organizza in giro per il mondo, e quella all’interno dei singoli Paesi, nelle singole Regioni e nei singoli Comuni, a partire dai livelli più bassi della società, dove è indispensabile tentare di cambiare le cose. Quindi questa stretta collaborazione tra le istituzioni è importante per il fatto che dà la possibilità di entrare a contatto veramente con i mezzi per poter cambiare la società dall’interno, a livello contingente ed immediato. Vedo dunque in modo assolutamente positivo questo connubio movimento-istituzioni, inteso in questo modo, come dialogo e crescita parallela e costante. L’importante è che ci sia estrema apertura da parte di entrambe le parti, altrimenti si rischia di fermarsi di fronte ad ostacoli puramente superficiali.

Ingrao – Tutto bene, ma io vorrei capire meglio da dove e come potrebbe ripartire una credibile battaglia sull’ONU, cosa si potrebbe fare concretamente perché questo non sia un organismo morto. Di più, vorrei capire in che modo una regione di grande prestigio anche culturale, come la Toscana, al di là della promozione di un pur interessante dibattito sul futuro dell’Onu, potrebbe rendere palpabile questo impegno, che io condivido, per non buttare a mare un organismo come l’Onu, ed anzi per restituirlo a un nuovo ruolo.
Ora io sono certo che sia indispensabile uno sforzo di mobilitazione culturale, anche di competenze, per definire, per esempio, che cos’è e che cosa dovrebbe essere l’ONU; bisognerebbe ripensare il suo Statuto, stabilire se e in che misura il diritto di veto, che pur ha avuto una sua funzione positiva, è un sentiero ancora valido oppure se bisogna seguirne altri.
Una riflessione simile dovremmo svilupparla sulla questione dell’Europa, alla quale Martini ha accennato. L’Europa infatti, anche al di là della posizione assunta nella fase cruciale del conflitto iracheno da Francia e Germania, ha svolto una sua particolare funzione. Non possiamo infatti ignorare che l’Europa ha creato un bell’intoppo all’azione americana e tuttavia gli Stati Uniti sono andati dritti al loro scopo. Ora si tratta di capire se dopo questo è possibile riprendere una propria collocazione. Mi chiedo se quella sua particolare funzione, può essere considerata come una vera e propria nuova soggettività che ha un suo peso in questa dimensione globale. E se sì, vorrei capire quale e come.
C’è poi un discorso specifico che secondo me riguarda Firenze. È una capitale morale del mondo. Mi perdonerete, spero, se ora mi abbandono a qualche nostalgia ma è difficile per me accantonare il ricordo di qualcosa che ho vissuto. Firenze è stata in tempi in cui ero molto più giovane, nella seconda metà degli anni del secolo scorso, un’esperienza assai singolare, estremamente significativa non solo per la sinistra in cui ho lungamente militato, ma anche per il mondo cattolico, che proprio a Firenze ha conosciuto quella particolarissima spinta che veniva da La Pira, proprio sulla questione della pace e del pacifismo. No, io non posso proprio dimenticare il ruolo di questa città e di La Pira ai tempi della guerra del Vietnam.
Ecco, io mi chiedo come una capitale che ha una così grande storia, e la regione in cui si trova, e di più le grandi Regioni italiane possano intervenire su temi come questi, cosa possono proporre, come entrano in rapporto a questa dimensione Europa. E mi chiedo come la passione e la lotta del movimento possano innestarsi su questo lavorio dal basso.
Io credo che si debba ragionare in maniera nuova non solo sul concetto di pace, ma anche sulla struttura che la pace può avere e penso che la Toscana e Firenze, sia per quel che dicevo di La Pira – la sua “città sul monte” – sia per quello che si è riusciti a costruire in occasione del Social forum, possano proporsi come luogo di rilancio di un nuovo pacifismo, avendo lo scrupolo di cogliere le novità e le differenze.
Mi permetto allora di suggerire un’ultima questione sulla quale appunto in Toscana si potrebbe avviare una riflessione: è la questione dell’Islam. Guardate la sinistra europea e lo stesso movimento hanno avuto un rapporto molto debole con l’Islam. Diciamoci la verità: non siamo riusciti a spingere quel mondo a mettere in crisi Saddam e a presentare un altro volto al posto di quello del dittatore, e questo ha contributo alla nostra sconfitta.
Dunque, per concludere, ci può essere dalla Toscana, da Firenze, da questo luogo di incontro fra istituzioni e movimento, l’avvio di un discorso e di atti concreti su questioni come l’Europa, l’ONU, l’Islam?

Martini – Noi stiamo lavorando su tutti questi temi: Islam, Europa, ONU. Abbiamo molte cose in programma, direi che siamo una pentola in ebollizione, se posso usare questa immagine. Ma Ingrao propone al riguardo, mi pare, una dimensione molto strutturata, di vera e propria ricerca, di proposizione. Qualcosa di più di convegni e testimonianze. Direi che non siamo ancora a questi livelli, ma le condizioni mi pare stiano maturando.
Recentemente sono stato a Gerusalemme e nei territori, ho incontrato israeliani, palestinesi e lì è venuta fuori l’idea che Firenze possa essere una sede appropriata per la ripresa di un negoziato, alla luce dell’avanzamento della “road map”. Una proposta che s’intreccia con una iniziativa che stiamo sviluppando proprio sulla pace in Palestina, e in Israele.
Citavo prima l’emendamento che ho presentato in sede di Convenzione europea a cui fa da pentdant la petizione che abbiamo lanciato e che sta raccogliendo nuovi consensi perché nella Costituzione europea venga inserito un articolo che rievochi l’articolo 11 della Costituzione italiana, che suoni più o meno a quel modo. È chiaro che su iniziative come questa ci vuole un sostegno che vada ben oltre i confini della Toscana, però mi sembra un fatto significativo.
Come mi sembra un fatto significativo la proposta che abbiamo fatto perché l’Istituto universitario europeo di Firenze possa diventare il luogo per una riflessione sul futuro dell’Europa. Anche qui, c’è bisogno di trovare alleanze, consensi, la collaborazione di altre istituzioni, a cominciare dal Comune di Firenze con il quale abbiamo avviato un’ipotesi per dare vita ad una vera e propria Fondazione fiorentina sulla pace.
E ancora vorrei nuovamente ricordare il lavoro che facciamo a San Rossore, che è vero è solo un convegno, ma da ormai tre anni è la sede di confronto non solo fra istituzioni e movimento, ma anche un autorevole tavolo di confronto fra intellettuali, esponenti dell’economia, politici, amministratori, rappresentanti di associazioni più o meno grandi su temi come la globalizzazione, la democrazia, lo sviluppo sostenibile. In quella sede, pur da posizioni anche radicalmente diverse, si discute con serenità di temi come la pace o la riforma dell’Onu o il ricorso agli organismi geneticamente modificati o la privatizzazione delle risorse naturali come l’acqua.
Ma c’è di più. L’anno scorso sono andato alla manifestazione che ogni anno si tiene a Mathausen per la celebrazione della liberazione del campo. Nel corteo, con i reduci e le associazioni dei deportati, c’erano un centinaio, mi pare circa centoventi, gonfaloni di tutta Europa e ottanta di questi erano toscani. Alla manifestazione a Roma del 12 aprile dopo la presa di Baghdad, dei trenta-quaranta gonfaloni che c’erano, ventiquattro erano toscani. È sempre così. Qualcuno potrà pensare che un gonfalone significhi poco, libero di farlo, ma io ritengo che sia un segno di attenzione, la dimostrazione di una presenza, che poi ritroviamo quando si va a vedere che tutte le iniziative fatte dalla Toscana in campo di cooperazione decentrata, di solidarietà internazionale e di attività umanitarie, vedono la partecipazione dei Comuni. Non posso dire che siano tutti i duecentocinquanta Comuni della Toscana, si tratta però di un bel nucleo – cinquanta-sessanta – e rappresentano una realtà significativa.
Recentemente abbiamo firmato un accordo con “Emergency”. Le istituzioni toscane e fra queste appunto sessanta Comuni si sono impegnate a sostenere finanziariamente, ad adottare gli ospedali di Gino Strada, in giro per il Medio Oriente. Quando Teresa Strada è venuta a Firenze non credeva ai suoi occhi. Diceva: “Solo in Toscana può succedere una cosa del genere”.

Ingrao – Be’ sarebbe molto importante che esperienze come queste venissero messe in circolo, fatte conoscere, costituissero il nucleo originario di una rete più ampia.

Turri – Un’esperienza davvero interessante. Lo confesso, se le mie osservazioni nei confronti delle istituzioni sono così negative, forse è perché non mi è mai capitato di vivere in una situazione del genere. Temo che cose come queste avvengano solo in Toscana.

Martini – No, non solo in Toscana, anche se lì hanno forse una maggior frequenza, un radicamento più forte, una storia più antica.

Turri – Comunque a me sembra un bel contributo alla costruzione di quell’altro mondo possibile a cui lavora il movimento. Io credo che questa parte, quella della proposta di un altro mondo possibile, sia la forza del nostro movimento. Per noi la critica della situazione contingente è un aspetto molto importante, ma il movimento lavora anche alla creazione di momenti, all’elaborazione di progetti come quelli che caratterizzano il livello istituzionale in Toscana.
All’Università a Roma organizziamo corsi di auto-formazione, paralleli ai normali corsi universitari, nei quali ci si occupa proprio delle proposte alternative a quelle fornite a livello ufficiale: così alla facoltà di Ingegneria, per fare un esempio, ci si trova a studiare non solo quali sono i nuovi missili utilizzabili in una guerra, ma anche i modi per portare l’acqua in determinate regioni del mondo dove l’acqua scarseggia. Io non sono ancora all’Università, però so di queste cose, che sono simili a quelle che facciamo a scuola, dove organizziamo iniziative pomeridiane in cui capire quali strade si possono percorrere per costruire questo altro mondo possibile. A volte sono cose molto piccole ma ritrovarle trattate a livelli istituzionali più alti fa piacere, e mi dispiace che così spesso le porte delle istituzioni su questo vengano chiuse in faccia.
Scontrarsi con la chiusura da parte delle istituzioni, questa è la mia esperienza personale, spinge a chiudersi, a diffidare delle delle istituzioni, ad essere scettici anche sulla necessità di dare uno sbocco politico ai propri ideali, alle proprie aspirazioni, alle proprie passioni. Ci si chiude quando si incontra anche dall’altra parte chiusura. Se invece c’è apertura, c’è volontà di dialogo e di costruzione comune… E io credo che questa sarebbe una cosa assolutamente fondamentale. Io non penso che questo movimento abbia possibilità in futuro se non c’è costruzione di momenti di questo genere, perché si vive in contesti territoriali molto piccoli ed è da questi che bisogna partire giorno dopo giorno per portare avanti anche le lotte a livello internazionali.
(Correzione fin qui)
Intervento – Posso portare un dissenso? Ed era un tema che ci riporta un po’ indietro, su questa cosa molto interessante, cioè il tema dell’anti-americanismo, che all’inizio era uscito fuori dalle cose che tu dicevi e di cui abbiamo parlato molto spesso. A un certo punto, nei nostri colloqui, dicevi: “Vorrei capire se si può essere pacifisti e non anti-americani”.
Io ho in mente quel regista che ha vinto il premio Oscar, Michael Mulk, con quel film sulle armi in America, che è salito a Hollywood e ha detto: “Io mi vergogno di essere americano”.
Il movimento pacifista mi sembra che, a un certo punto, si sia trovato stretto; da un lato veniva accusato di essere oggettivamente con Saddam, dall’altro veniva accusato di essere anti-americano.
Si può rivendicare il diritto di essere anti-americano?

Martini – A me queste etichette piacciono poco, mi convincono poco; io non sono anti-iracheno, non sono anti-americano, non sono anti-cubano. Non riesco a viverlo così. Capisco e sento fortissima la critica per la politica del governo americano; questo è indiscutibile, è una politica che io considero negativa e pericolosa, contro la quale bisogna chiamare la cultura, la gente, ad esprimersi e che si è manifestata anche in questi giorni. Bisogna però che io vi racconti un piccolo episodio, per dire quanto bisogna stare attenti con queste parole.
Noi abbiamo fatto, dieci giorni fa, l’assemblea, che facciamo ogni tre anni, dei giovani toscani emigrati all’estero, figli dei toscani emigrati, dalle montagne della Lucchesia, della Garfagnana, che sono andati via e ogni tre anni riuniamo questi giovani toscani che stanno nei cinque continenti ad un incontro per recuperare la toscanità, per non perdere il legame con la loro cultura. Io ho fatto il mio discorso dove ho detto queste cose, ho grosso modo ripetuto questo sentimento pacifista e non anti-americano. È venuta da me piangendo una ragazza figlia di toscani con un cognome toscanissimo (non mi ricordo se era Guidi o Lucchesi, insomma uno di questi cognomi tipici) e che mi ha detto: “Guarda, ti devo ringraziare perché io sono americana, sono contro la guerra e non ho condiviso quanto è successo, però venire in Italia e sentire l’ostilità, il rifiuto di tanti giovani perché io ero americana mi aveva ferito.
Nelle tue parole di critica al mio governo, ma di rifiuto dell’anti-americanismo finalmente ho trovato un’oasi, un momento di comprensione e anche di solidarietà e quindi sto meglio”, con questo pianto molto liberatorio, che la faceva stare meglio.
Sono piccoli episodi, però io sento che noi dobbiamo stare attenti a queste cose, perché nella forza di un movimento pacifista c’è anche la sua grande identità non violenta. Di questo io sono assolutamente convinto. E la non-violenza è anche fatta di cultura e di distinzioni, di capire che sarebbe come se qualcuno dicesse che, siccome noi abbiamo Berlusconi, in una parte del mondo cresce il sentimento anti-italiano. Io mi sentirei male… (fine nastro).

Ingrao – …a me la parola “anti-americano” non dice niente, io la rifiuto; “anti-Bush”, questo sì, fortemente e aspramente anti-Bush. Quindi l’uso di una parola come questa non no va, sono assolutamente d’accordo con le cose che dici tu. Perché? Perché? Io ho memoria di aiuti (ma non mi piace la parola “aiuti”), cose importanti per la mia vita che sono venute dall’America e che sono durate tutto un secolo. Per esempio, io ero un giovanotto e… Vi ricordate la famosa antologia di Vittorini? Che fu una svolta su tutto un mondo culturale e ci aprì tante e tante strade. Da allora. E come allora l’America ci insegnò un sacco di cose, ci fece capire tutta una novità del Novecento, che altrimenti noi non avremmo afferrato. E questa è una. Così come saremmo stupidi a dimenticare l’apporto che è venuto dagli americani in quella lotta per la vita e per la morte che c’è stata con il nazismo. Io non posso mai dimenticare quello, perché c’è stata una grande America e il rooseveltismo è stata una cosa che è piena di forza, di significato e decisiva per evitare la catastrofe del nazismo in Europa.
E ancora dopo. Io mi ricordo che abbiamo vissuto un periodo grave di tensione con l’America, quando c’è stato l’intervento… delle forze italiane; quello c’è stato ed è stato molto presente. Dentro di me non ho mai pensato che questo significava un’identificazione con l’America, con l’America cattiva. C’era Togliatti che aveva un po’ alcune di queste civetterie; ricordo quando fece un editoriale su L’Unità, in cui rispondeva ad alcune di queste cose stupide che si facevano anche in America. E lui fece un articolo che era intitolato “Ma come sono cretini!” ed era anche forse un modo con cui noi rispondevamo alla forza di questa grande potenza che in quel momento c’era. Senza dubbio si schierò contro il comunismo italiano e ci fece pagare…. Ma anche perché noi avevamo degli sbagli, delle colpe, e così via. E questo che vuol dire? Può far dimenticare tutto questo, tutto il bene, tutta la lotta?
E anche altre cose che sono state molto intrecciate, soprattutto il problema terribile, senza dubbio, del Vietnam, dove sappiamo tutti quello che è successo.
Quindi un assurdamente “no” all’anti-americanismo, alla lettura unilaterale, ancora adesso, dell’America. Indubbiamente Bush ha attorno a sé oggi una forte maggioranza, ce lo dicono tutti e a me dispiace, ma non per questo io voto Berlusconi e gli regalo l’America.

Turri – Io mi riaggancio perfettamente al suo discorso e non voglio pertanto dimenticare che il movimento è nato a Seattle, che senza gli americani, che hanno aperto per primi gli occhi su determinati cambiamenti dell’ordine socio-politico del mondo, questo movimento non sarebbe nato e che comunque proprio la parola “anti-americanismo” viene a cozzare con quelli che sono i contenuti basilari del nostro movimento, che è un movimento che vorrebbe l’abolizione delle frontiere, l’abolizione delle diversità culturali, la possibilità per tutti, in ogni parte del mondo, di avere accesso liberamente alla cultura e all’informazione. Quindi, di conseguenza, anche venire a fare una distinzione etnica, perché poi è prettamente etnica, culturale. È una cosa che non ha assolutamente senso fare all’interno di questo movimento, che comunque è la faccia positiva della globalizzazione. Si può, appunto, parlare di anti-politica americana nello stesso modo in cui si può parlare di anti-politica berlusconiana e questo non significa che però noi, che siamo qui a discutere di queste cose, facciamo parte del grande calderone degli italiani.

Ingrao – Mantenere assolutamente l’articolazione. In questo senso voglio dire che, per esempio, ci sono tutte e due le cose insieme. Da una parte, Guantanamo è un orrore, bisogna dire che è un orrore; contemporaneamente però io sento il bisogno di dire poi, quando a Cuba ammazzano in quel modo tre persone e fanno quei processi, che è un altro orrore. C’è poco da fare! Non voglio assolutamente perdere il bene dell’articolazione, della lettura articolata del mondo.

Martini – Vi chiederei, in un minuto, questa cosa. Mi interessa molto capire se c’è la risposta a uno dei quesiti che avevo posto all’inizio, perché è un mio cruccio culturale; quando dicevo: “C’è o non c’è? Sbaglio a sorprendermi della vitalità del movimento dopo venti anni di politica, di cultura egoistico-individualistica? C’è un rapporto cioè fra queste cose?”.
La mia tesi è questa. Nel mondo occidentale, pur con tutte le articolazioni che si vogliono fare, però è chiaro che negli ultimi venti anni, grosso modo, è prevalso un indirizzo culturale molto edonistico, individualistico, rampantistico. Usiamo tutte le varianti possibili. E questo sta fortemente dominando, insieme al martellamento della televisione, alla superficialità, ecc. Non è un po’ sorprendente che dopo venti anni di questo martellamento, improvvisamente esploda un movimento per la pace di questa rilevanza, considerando che questo movimento esprime contenuti culturali che sono opposti al martellamento culturale che c’è stato?
È un quesito che ho dentro di me, è una riflessione. È una domanda sbagliata?

Ingrao – No, la risposta che do è questa e con ciò torno un po’ su quel motivo. Il mondo è complesso, è articolato, è complicato. La riduzione a uno e quindi bianco o nero, brutto o bello…. Personalmente io non ci credo; credo che poi ognuno di noi sia…. Insomma, do una risposta che è un po’ filosofica. Credo che poi ogni soggettività, comprese queste soggettività soprattutto…
Insomma, il Novecento ci ha insegnato questa complessità e questa articolazione della vicenda umana. Adesso li attaccano – e mi dispiace e io, in questo senso, li difendo –, i giudici; però questa storia dei giudici io la ripeto da una vita, ma proprio perché ci credo profondamente; non è che mi persuade poi tanto, perché le persone umane, vai a sapere…, chi è giusto, chi non è giusto, chi è un assassino, chi è buono, chi non lo è! A me, come temperamento, non suona.
E poi mi pare che nei suoi modi questo terribile Novecento abbia avuto due facce. Una faccia è spaventosa, perché ha inventato le guerre che ormai si sono viste nella storia. Quindi è stato un secolo di una violenza che non si era mai vista, ci sono stati massacri di milioni e milioni di persone. Però è stato anche un secolo che ha cominciato a ragionare sull’essere umano e sull’individuo, uscendo dalle categorie del bianco e nero, del manicheismo. Non parlo più solo della politica, ma della cultura europea, dove questo c’è e anzi questo sì lo difendo contro un certo americanismo. Ci sono stato tiranni; c’è stato Kafka, ci sono stati autori come Kafka o come Joyce o come Freud, che ci hanno raccontato che la storia della soggettività umana era molto più che il bianco e il nero.

Turri – Parlando dal mio punto di vista, di giovane movimentista ancora piena di speranza, mi piace pensare che, sì, sia normale, nel senso che spero che sia davvero la risposta ad un bisogno proprio della specie umana. Io spero proprio che l’uomo, come animale, non si riesca mai ad accontentare solamente dell’edonismo e dell’individualismo, spero che abbia sempre questa pretesa di andare oltre, di crescere.
Quindi a me piace pensare che questo movimento sia una risposta ad una società che stavano cercando di imporci, che sia una risposta ovvia e pertanto io spero che accadrà sempre nella storia che, quando i diritti dell’uomo vengono messi, vengono subordinati rispetto al guadagno invece di pochi o comunque alle ingiustizie, spero sempre che ci sia una risposta di questo genere, che faccia parte dell’uomo.

Ingrao – Stiamo attenti però alla complessità della politica!

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