Eugenio, l’amico non scaduto

Eugenio Manca

È solo pochi giorni fa che, nel post Senza macchia, ho citato questa strofa di una canzone di Francesco Guccini: «… a vent’anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell’età…». In modi anche molto diversi tra loro, più o meno biasimevoli o vezzeggiabili, ma comunque stupidi, proprio stupidi. Lì mi riferivo all’ingenua stupidità, così la definisce lei stessa, che condusse Monica Lewinskij ad inginocchiarsi dinanzi al potere, e qui, invece, voglio dire della mia, dell’occhio pieno di ammirazione, e qualche stilla di invidia anche, con cui guardavo Eugenio Manca, uno dei migliori giornalisti de l’Unità che – ha scritto laconico Carlo Ricchini intorno alle 9 di questa mattina sulla sua bacheca di Facebook – è morto.

«Voglio con queste frettolose righe – comunica Ricchini in un testo ripreso anche dal sito delle consumatrici col bel titolo L’amico delle donne – avvertire tutti gli amici e i compagni che è venuto a mancare Eugenio Manca, uno dei migliori giornalisti dell’Unità, uno scrittore, un uomo buono e gentile, un cultore della poesia. Una persona amata e stimata. Aveva lavorato all’Unità sino agli anni ‘90, era venuto a Roma da Lecce con la sua adorata Gisella. Era diventato in pochi anni inviato speciale e, spesso, i suoi pezzi erano veri e propri saggi di letteratura. Era poi passato alla redazione delle iniziative speciali, al Salvagente, partecipava e curava l’uscita dei libri, e uno portava la sua firma: raccoglieva i suoi articoli sui mestieri, dall’operaio, al contadino, al tecnico, al lavoratore intellettuale. Ricordo le sue interviste ai grandi vecchi italiani. Pezzi meravigliosi. Da alcuni mesi era gravemente malato. Un maledetto tumore se lo è portato via. Aveva 71 anni».

Eugenio

Era davvero uno dei migliori giornalisti de l’Unità. Io ero incantato dai suoi articoli non solo per come erano scritti, il che in questo mestiere è una dote assai importante, che può fare la differenza, ma soprattutto per ciò di cui trattavano, per le frontiere che varcava, per le praterie che percorreva, per i pregiudizi che sfidava, per gli interrogativi che contenevano, per i neuroni che innescavano, per i temi che osava.

Eugenio Manca nei primi anni in cui ho avuto l’onore di lavorare a l’Unità faceva l’inviato e prevalentemente scriveva di giovani, donne, deboli, handicappati, omosessuali, malati sofferenti e sofferenti familiari di malati, e scandagliava questi argomenti con sensibilità ma senza concessioni, direi senza dar nulla per scontato, privo di piaggeria, per cercare di capire e insieme a lui far capire i lettori. Si occupava cioè di questioni che interessavano anche me e mi sembrava fossero il fulcro su cui far leva per poter svecchiare e far andare avanti, consentendogli un salto, al Partito comunista italiano, giunto a una delicatissima fase della propria storia, quella che si era già lasciata alle spalle le folle oceaniche e la quasi maggioranza assoluta del “sorpasso” annusato alle elezioni amministrative del 1975 e alle politiche del 1976, stava ansimando con Berlinguer fra i cancelli della Fiat e via Roma a Torino dove sfilavano i Quarantamila, di lì a poco avrebbe mescolato le lacrime di Occhetto e la bile ed ogni altro succo dei nostri affranti corpi.

Era delicato e in punta di penna, Eugenio, ed io appunto ho tentato di emularlo, o almeno questo è quello che avrei voluto, e fortunatamente il mio capo, Gabriele Capelli, per un po’ mi ha consentito, ancorché solo su scala locale, di farlo, occupandomi, tanto per capirsi, di “sociale”, una categoria vasta che consentiva di inglobare tutta quella roba di cui si occupava Eugenio.

Annamaria Guadagni

Nella mia fantasia, direi, Eugenio era lo Yang e lo Yin Annamaria Guadagni – a cui ho consentito di intervistarmi ad un certo punto e di cui, come ho avuto occasione di scrivere altrove, ero in qualche maniera segretamente innamorato – e insieme facevano un mio modo di vedere la realtà intorno a noi che in pochi raccontavano sui giornali.

Non ho minimamente idea se Eugenio Manca si sia mai reso conto dell’ammirazione e dell’infatuazione che provavo nei suoi confronti, né se io abbia mai detto una parola di più riguardo questa stima, spirito di emulazione, ricerca di un modello. So che conservo un ricordo molto gradevole dell’unica occasione che ho avuto di lavorare al suo fianco, e con lui anche la bravissima Vanja Ferretti, durante il festival nazionale dell’Unità a Tirrenia nel 1982, alla vigilia del massacro di Sabra e Shatila, ed in concomitanza con l’omicidio del generale Dalla Chiesa, l’arresto di Licio Gelli, la formazione del secondo pentapartito presieduto da Spadolini per dare una parvenza di laicità alla restaurazione in atto e al consolidamento del partito degli affari. Di lì a poco ci sarebbe stato l’attentato alla sinagoga di Roma ed io quel tristissimo giorno avrei superato l’esame da giornalista professionista.

1982: alla festa dell'Unità a Tirrenia

Sì comportò proprio come un fratello più grande, spingendomi, incitandomi, ma anche frenando e tenendomi a terra, “grounding” direbbero i maestri dell’anima, ed io penso che la sua lezione, anche la sua lezione, sia servita, mi abbia dato, se sono qui lo devo anche a quella.

Sorridente, pacato, ma con un velo di dolore che inequivocabile traspariva dai suoi occhi – e le scarse indicazioni biografiche sul suo conto spiegavano a cosa fosse dovuto quel velo di dolore –, era affettuoso e tuttavia risoluto e direi proprio questa mescola di affettività e risoluzione, senza farlo mai scadere nel rancore, devono averlo spinto ad allontanarsi, a prendere le distanze, a rincattucciarsi nelle sue letture, nella poesia, nella casa di campagna dove sono andato a trovarlo qualche anno fa e dove mi ero ripromesso di tornare ora che di tanto in tanto passo da Orvieto.

Non è più possibile, e mi addolora, perché davvero Eugenio, per quanto poco lo abbia potuto frequentare, era una persona speciale, ad iniziare dal fantastico nome che i suo genitori gli avevano dato, il cui significato è “nato bene” e, quindi, “di nobile stirpe”, nome che mi è sempre piaciuto così tanto da darlo al protagonista di Amore in buca, un personaggio chiave del mio libro di racconti che mi scrisse di star leggendo «con una certa fatica: non perché non sia scorrevole ma perché è percorso da un umore nero, da una vena di dolore che a me impone soste e boccate d’aria. Come quando si va sotto in apnea».

Ciao Eugenio. In una delle poche mail che ci siamo scambiati intorno ai 90 di Bruno Schacherl e all’uscita di quel libro mi hai scritto: «Sappi che io sono qui, che ti sono amico “non scaduto”, e che possiamo vederci e sentirci quando ci pare. Amo pensare che così potrà essere anche per me». Non ce l’abbiamo fatta a vederci, ma conservo forte quel senso di amicizia non scaduta nemmeno dinanzi alla morte.

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