Partigiani e felicità

Avrei voluto onorare il 25 aprile – festa della Liberazione e quindi della lotta partigiana, giorno in cui da qualche anno rinnovo la tessera dell’Anpi in segno di gratitudine a chi ci sottrasse alla schiavitù degli invasori e della dittatura – scrivendo questo testo che solo ora è pronto, avendo comprato solo pochi giorni prima di quella data il libro a partire dal quale scaturiscono queste mie riflessioni.

Il libro si intitola La felicità dei partigiani e la nostra. Organizzarsi in bande, lo ha scritto Valerio Romitelli che lo ha presentato insieme all’ex segretario regionale del Pci toscano Guido Sacconi, il 22 aprile scorso alla Libreria dei lettori di via della Pergola a Firenze, dove sono stato invitato dall’amica Linda Coppitz.

È un libro molto interessante che mette in fila numerosi testi, di cui vorrei citare i principali autori: Hannah Arendt, Pietro Secchia, Roberto Battaglia, Claudio Pavone, Sergio Luzzato, Primo Levi, Beppe Fenoglio, Luigi Meneghello, Giorgio Bocca, Carl Schmitt, Guido Quazza, Santo Peli.

Un libro attraverso il quale si comprende meglio cosa sia stata la lotta partigiana, cosa abbia rappresentato, come sia stata in seguito letta e forse utilizzata, e si possono tentare alcuni ragionamenti sulla nostra storia più recente ed anche sulle contingenze della politica.

Qui, anziché andare a cercare i punti di forza, le proficue suggestioni, le encomiabili ricostruzioni, mi soffermerò su quelli che per me sono motivi di divergenza.

Prendo spunto dalle parole contenute nel titolo del volume: la “felicità”, i “partigiani”, la “felicità dei partigiani”, la “felicità nostra”, l’“organizzarsi” e l’“organizzarsi in bande”, le “bande”. E, altro argomento di cui ho sentito ragionavano Romitelli e Sacconi nella presentazione, l’“andare in montagna”.

La felicità. Fin dall’età della ragione, direi da quando un criceto mi è incidentalmente morto in mano (ma forse era la mano di mio fratello), o il primo amore è partito, in ogni caso da quando ho fatto 2 + 2 ed è venuto fuori 0, mi son detto che la felicità non esiste, e se esiste è solo una parola, alla quale sarebbe da preferire come la si indicava in greco, ovvero sia eudaimonia, che suona più come ben-essere, o più precisamente ancora come un favorevole nume, una proficua potenza divina, un buon demone eu – daimon. Verso la felicità dunque conservo ampi spazi di diffidenza, intendendola tutt’al più come questione privatissima, a mio giudizio transitoria anzi appena appena momentanea, e perciò biasimo chi si intende di servirsene come fine o condimento della politica, ad oggi nemmen capace di garantire il suo fine, il bene comune, dal quale ne potrebbe derivare ben che vada serenità, non felicità.

I partigiani. Un’ammirazione incondizionata e soprattutto rispetto e gratitudine. Perché erano come Davide contro Golia, ancorché non a caso nel momento in cui anche le potenze decidono di sferrare l’attacco e, quindi, di sostenere i ribelli. E se oggi non siamo costretti a bere olio di ricino, cioè se siamo fuori da una dittatura, o quanto meno da quella dittatura, lo dobbiamo a loro. Ma i partigiani, lo dice la parola stessa e Romitelli ne da conto in qualche punto del suo libro, sono di parte, e quantunque fosse doveroso esserlo allora, e chi c’era all’epoca vada giudicato per la scelta che ha fatto, per dove, da che parte, ha deciso di stare, proporre oggi uno schierarsi, un mettersi da parte anziché mettere a parte, e quindi un contrapporsi, mi suona comprensibile ma di difficile digestione.

La felicità dei partigiani. Al di là dell’idiosincrasia per la parola felicità – solo la calda coperta di Linus potrebbe ambirvi o, come in un celebre rifacimento del cartoon, uno spinello, per chi se ne serve – devo non escludere che attimi di gioia, come quelli che narra Primo Levi in Se non ora, quando, siano esistiti durante le drammatiche giornate della resistenza all’oppressione nazista in Italia e del resto sappiamo che un po’ di piacere lo si è rubato anche nelle situazioni più estreme e impensabili, o, per dirlo con altre parole, che ci sia stato L’amore ai tempi del colera. Ma di qui a parlare della condizione del partigiano, del combattente, del braccato, del latitante, del clandestino, come di qualcosa che riempie di un’esplosiva emozione, mi pare assai dubbio, indimostrabile ovviamente come indimostrabile è il contrario, ma dubbio e difficile sicuramente, senza per questo togliere nulla alla sensazione di densa, soddisfacente, intensa convinzione che quel che si stava facendo fosse, giusto, doveroso, irrinunciabile e desse ossigeno al proprio animo.

La felicità nostra. Diffido di questi improvvisaticci, aitanti, ridanciani e rozzi sostenitori dell’intromissione della felicità nella politica, attinta magari dall’accumulo di oggetti derivati da un passato dal quale si è stati per anagrafe esclusi che ti mostrino snob nella tua povertà. Perciò non comprendo l’intento di Romitelli, il quale a quest’insipienza certamente non deve appartenere, di ingentilire e rendere appetibile la vocazione e l’impegno politici pel tramite appunto di una categoria, la felicità, che con la polis e lo star insieme dei cittadini mi pare abbia sempre avuto poco da spartire, come testimonia l’attribuzione dell’aggettivo felix a un impero, la Cacania, e ad un’epoca, che per quanto ballerini e brindanti, come magistralmente notava Joseph Roth, odoravano già di putrefatto. Ci hanno bisbocciato negli ultimi trent’anni con pailettes, artifizi ed altri brilluccichi, promettendoci appunto una felicità riposta sul terzo ripiano del secondo scaffale nel quarto corridoio del primo centro commerciale sorto in mezzo alla brughiera, e c’è chi se l’è bevuta ed ancora ne sorseggia quando non scola, e nessuno che ci venga a dire, come faceva l’unico esperto di eudaimonia tacciato d’essere un ingordo crapulone dall’eiaculazione facile, tal Epicuro, che quella va gestita dosando, sapendo rinunciare, ritardare, cogliere, e sempre pronti ad abbandonare il banchetto.

L’organizzarsi. Che ad organizzarsi siano partiti, bande – come suggerisce Romitelli –, movimenti, associazioni, clan o tribù, è il solo fatto di organizzarsi, più precisamente è proprio il fatto di organizzarsi che consente da un lato una maggior efficacia e funzionalità del gruppo ma, dall’altro, l’innesco di pratiche burocratiche, ritualità, tecnicismi. La necessità di organizzarsi non è identica in ciascuna di queste formazioni, e dipende anche dalla forza del movente che spinge a stare insieme, ma lo spontaneismo, come la storia insegna, ha il difetto di bruciarsi con gran rapidità e, quindi, di incidere poco su processi lunghi.

L’organizzarsi in bande. Ci torno dopo aver trattato l’argomento “bande”.

Bande. L’origine della parola è incerta, dal latino medievale o dal provenzale si suppone. Uno sportello a due bande è uno sportello con due battenti, uno per lato ed è proprio con questo concetto, il lato, la parte, che ha a che fare, divenendo subito partito, fazione. La banda dritta e la sinistra sono i due lati della nave e da qui presumibilmente deriva il fatto che essere sbandata, o alla banda, è l’essere inclinata, piegata da una parte; “timone alla banda!” è l’ordine con cui si impone di mettere tutto il timone dalla parte verso la quale era già inclinato. Ha a che fare anche con il bandum che nel latino medievale significava «insegna» o col gotico bandwō «segno» e di qui, come termine collettivo, indica «milizia, partito, fazione») perché il drappo portato ad armacollo dai soldati li distingueva da altri corpi militari, come chiaramente spiega, per esempio, le Bande Nere del celebre Giovanni. È dunque anche gonfalone, stendardo, vessillo, e ne deriva chiaramente bandiera: l’insegna della banda. Ma nel linguaggio militare la banda è un reparto irregolare, costituito normalmente da volontari, che esercita la guerriglia. Di qui la banda armata, spesso un gruppo di persone unite a scopo delittuoso, da cui la banda di ladri che porta all’associazione a delinquere, all’accozzaglia, al branco, la gang, la ganga, la manica, la masnada, la combriccola, la cricca. C’è naturalmente anche la compagnia di suonatori di strumenti musicali a fiato o a percussione, da cui la band. Il dizionario aggiunge che banda quando deriva dal francese bande, come nella benda, indica la striscia o, in genere, la lista e qui sfocia nell’araldica ad indicare la pezza onorevole posta diagonalmente nello scudo, di cui occupa la terza parte, dal cantone destro del capo al cantone sinistro della punta. Ed infine, di derivazione forse tedesca, lamiera sottile, più facilmente bandèlla. Quello che a me pare difficilmente si possa occultare dalla parola banda, lo osserva onestamente lo stesso Romitelli, è il carattere “banditesco” di essa – e da dove deriverebbe altrimenti questa definizione del furfante delinquente – e ragionevolmente penso che se non ci fosse stato qualcosa del guappo o del brigante, pronto ad andar cioè fuori legge, non ci sarebbe stata resistenza, andata in montagna, “brigata” e non ci si sarebbe presi la “briga” di esporsi tanto, rischiare, essere un po’ incoscienti per quanto consapevoli. Ma non riesco, come fa l’autore, a figurare una dimensione dove non si identifichi la legalità quanto meno con le leggi interiori che ogni uomo si deve dare.

L’organizzarsi in bande. Mi pare non solo impossibile, alla luce anche di quello che ho scritto, ma anche non auspicabile, e se qualcosa di analogo dovessi invece sperare sarebbe più un “movimento”. Un movimento come quello che confusamente negli anni Sessanta e Settanta ha tanto “brigato” sull’eredità forse della lotta partigiana e per un istante ha rialzato la cresta dinanzi all’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan o più in generale allo spettro di una guerra che da allora non si è mai smesso di combattere. Un movimento, diverso da un partito ma non così contrapposto ad esso, come lo è stato quello degli studenti o quello sindacale negli anni caldi della contestazione e della lotta al terrorismo. Così io forse chiamerei quello che il nostro autore chiama banda e che necessita di un’organizzazione interna e di una organizzazione delle sue relazioni con le altre parti della società.

Andare in montagna. Durante la presentazione del libro a cui hanno partecipato Romitelli e Sacconi è emersa con una certa insistenza l’importanza che poteva aver avuto allora e che potrebbe avere oggi l’espressione “andare in montagna”. Mi ci soffermo perché nella mia personalissima esperienza l’amore per le vette, per il camminare in quota e per lo scendere dai picchi con gli sci ai piedi, oltre che da ragioni geografiche di nascita – la regione al piede dei monti, il Piemonte – è dettato anche da una forte vicinanza a quel “scarpe rotte eppur bisogna andar”. Oggi, decenni dopo, vedo anche il valore dell’isolarsi su una vetta a riflettere, della difficoltà dell’impresa di arrivar lassù e lassù sopravvivere, ma anche i rischi di non star nella mischia, là dove davvero si combatte e si deve resistere.

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