… anche un po’ di vocazione
Come promesso in Il mestiere più antico del mondo, su invito di Sara Fioretto, ho partecipato ieri nella bella libreria dei Servi, dinanzi a un pubblico di una ventina di persone, nessuna delle quali interessata a fare da grande il giornalista, alla presentazione del libro di Cristiano Tassinari, Volevo solo fare il giornalista, pubblicato dalla casa editrice Lìmina di Arezzo, al quale ho fin dalle prime battute precisato che, avendo comprato il libro con il 20% di sconto a € 16 pochi minuti prima dell’evento, avrei parlato non nel merito del volume ma del tema che invece conosco piuttosto bene.
Agli astanti ho spiegato che la scheda editoriale del libro, la quale invece avevo accuratamente letto, sostiene che Tassinari punta un dito contro un sistema fatto di lottizzazioni, raccomandazioni, favori, scambi e quant’altro, e denuncia il calvario a cui spesso, quasi sempre, sono sottoposti gli aspiranti giornalisti, a cui vengono proposti stage senza fine, contratti da cococo, pagamenti a rigaggio (spiccioli per ogni riga) e a borderò, interminabili precariati.
Ci siamo passati tutti, ma credo che oggi sia diventato un vizio, una regola, una consuetudine. Ritengo anche che, purtroppo, tale abominio sia diffuso ovunque: vogliamo parlare delle case editrici o dei call center o dell’antica mitica fabbrica? E ricordarci, come ci ha insegnato, se non ricordo male, il mitico Luigi Albertini, che «fare il giornalista è sempre meglio che lavorare».
Tassinari, che è un giornalista televisivo – senza offenderlo!, semmai lo devo ringraziare avendomi dato l’opportunità di ricordare che in libreria c’è anche un libro mio –, è un istrione. Ha tenuto banco buona parte del tempo, presentando e presentandosi, più che farsi presentare. Del resto, giustamente, non avendo io letto il libro, cosa che invece aveva fatto la gentile Sara. Ma uso la parola istrione perché poi mi servirà a sviluppare un ragionamento che devo al grande amico e maestro Piero Nacci.
Con l’intento, temo mal riuscito, di indurre all’acquisto del libro il pubblico – tra il quale due poeti, un imprenditore del mobile scrittore, un simpaticissimo signore che da giovane voleva fare quello a cui da tempo ambisce Berlusconi, cioè salire al Colle, una cameraman anzi camerawoman giù di batteria, un vispo ragazzo che ha capito che di pazzi ce ne saranno in giro sempre di più e perciò farà lo psicoqualcosa in compagnia d’un altro che anch’egli ha compreso da che parte va il mondo, una giovane signora che non ricordo cosa cercasse e due fantastiche creature portate lì dal caso – ho sollevato due obiezioni a Tassinari. La prima è il titolo che pur non è sbagliato, ma contiene quel solo dal quale si potrebbe desumere che per far questo mestiere basti poco. E invece non è così, o almeno a me hanno insegnato che non è così. Come cantava Jannacci ci vuole orecchio, bisogna avere il pacco immerso dentro al secchio. O come cantava De André ci vuole anche un po’ di vocazione. E non basta. Perché devi mangiare tanta polvere, consumare molto i tacchi e far luccicare il selciato, fare attese infinite, appostamenti, pedinamenti. E poi non ti basta mai quello che hai studiato sui banchi di scuola o nelle aule d’Università. E devi essere sospettoso, curioso, devi avere fiuto, mangiar la foglia, non accontentarti mai, metterci passione, prudenza, precauzione, ma poi accelerare, aver fretta, sentir l’adrenalina. Sì, com’è scritto nella scheda editoriale, devi aver conoscenze, ma non intendo quelle che ti danno una spinta – io una spintina l’ho avuto ma ho colto lo spunto – ma quelle senza le quali non avrai mai una notizia, non saprai mai niente di quel che avviene.
E qui la seconda obiezione. Nella scheda editoriale per definire il desiderio, l’ambizione, la volontà, l’ostinazione, la propensione a far questo mestiere – quest’altrui mestiere – si usa il termine sogno, e a dispetto degli psicanalisti, questa parola va poco d’accordo con la professione, perché chi dorme non piglia pesci, la gente delinque soprattutto nelle tenebre, le rotative si fermano all’alba e il sogno non è realtà e il compito prima di un giornalista è quello di raccontare non dirò la verità – chi la possiede? – ma la realtà. Cosa che si fa sempre meno, ed anzi spesso la si cela, la si manipola, la si occulta.
Raccontare la realtà, meglio quand’è una notizia, dotata di wwwww altro che www, la regola delle 5 vuddoppie anglosassoni: chi, dove, quando, cosa e perché. Regola di quel ferrovecchio della logica ancor prima del giornalismo. A cui poi possono far seguito ben distinte le opinioni.
Ma come appunto dice il mio amico Piero Nacci, il giornalismo è defunto o in via d’estinzione, non perché non ci siano ancor oggi bravi giornalisti, ma perché l’ha ucciso la tv, in particolare quelle private e commerciali, autorizzate al libero mercato delle onde elettromagnetiche e alla proprietà privata dell’etere che è il cielo di tutti dalla legge Mammì, emanata da Craxi, sentito Silvio, e deciso da Licio Gelli. Non si sta qui facendo della fantapolitica che pur troverebbe dei riscontri rileggendosi i vagiti del cementificatore brianzolo e i proclami del materassaio pistoiese. Me la prendo solo con – ecco perché ho usato quella parola – l’istrionismo e l’infotainment, col fatto che a un certo punto la cravatta, il tailleur, la chioma, la postura o il timbro di voce, infine le grida e gli insulti sopravanzano il fatto, l’immagine intesa come testimonianza non come appariscenza. Addio Volcic, Frajese, papà Marrazzo, addio Barbato e Giuseppe Fiori. Forse la svolta fu a Vermicino, una tragedia Porta a porta.
Eppure, alla ragazza che avevo invitato ieri in libreria con un tam tam telematico finito nel nulla, la cui amica mi aveva chiesto se, essendosi laureata in filosofia, le consigliassi di far o meno questo mestiere, non mi sentirei di dirle arrenditi. Ma affila le unghie, e mettici anche un po’ di vocazione.
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“Avrei fatto il giornalista anche gratis:
meno male che i miei editori non se ne sono mai accorti.
(Enzo Biagi)
Mi sembrava appropriata…ciao Fabi
I miei editori hanno fatto prima: mi hanno licenziato.