Intrecci nella rete

Camillo Arcuri

Camillo Arcuri – genovese, collega meritatamente giunto al riposo dopo una carriera al “Corriere mercantile”, al “Secolo XIX”, al “Giorno” e poi al quotidiano di via Solferino, collaboratore del settimanale fondato nel 1955 da Arrigo Benedetti, che porta con sé Eugenio Scalfari, Antonio Gambino ed altri illustri nomi del giornalismo italiano – è per me una delle dimostrazioni di quanto proficuo ed utile possa essere avere un blog o far un uso ragionevole dei social network, o, in altre parole, di immettere contenuti di un qualche valore in rete, e, pertanto, di quanto sciocco sia essere pregiudizialmente avversari di un mezzo che, al pari degli altri, né va idolatrato né scragiato.

Aristo Ciruzzi

Sì, perché Camillo Arcuri – digitando su Google il nome di Aristo Ciruzzi, importante figura in ombra della sinistra italiana, uno dei primi ad essere finiti in carcere, insieme a Vittorio Togliatti, nipote di Palmiro, e a Marisa, con l’accusa di far parte delle Brigate Rosse, per inchiodare, nel teorema del giudice Sossi, Pci ed eversione all’epoca del traliccio di Segrate ai piedi del quale morì Giangiacomo Feltrinelli – è incappato innanzitutto, o forse solo esclusivamente, nelle poche cose che io ho scritto riguardo questo amico di famiglia e l’entourage nel quale ebbe inizio e crebbe quell’amicizia, e questa possibilità appunto di avviluppare legami che si erano persi o sciolti o non erano mai potuti sbocciare, insieme alla possibilità di conservar memoria e lasciar traccia e fornire indizi utili a nuove ricerche è appunto quanto di meglio il 2.0 e la Babele telematica offrono.

Orbene Camillo Arcuri, che aveva avuto contatti con Aristo Ciruzzi quand’era ancora vivo, ha potuto, per mio tramite, mettere in collegamento suo figlio, che stava lavorando a qualcosa sull’amico comune, con altri che lo avevano incrociato, tra cui mio padre che di Aristo è stato certamente un buon amico, facendosi peraltro recapitare a casa – quella dove io vivevo da bambino in via Barbacane all’11, e forse quella che affacciava sulla basilica di Santa Croce – corrispondenza compromettente di certo interesse dei servizi segreti.

Gianfranco Dini

Ed ora, passato ad altro tema, mi manda Camillo Arcuri il libro che Mursia ha appena mandato alle stampe, la sua ricerca della verità su una storia per troppo tempo rimasta sotto silenzio, quella dell’omicidio della moglie e delle due figlie di Robert Einstein, cugino del celebre Albert che ci ha svelato la relatività ed avviato al terrore atomico. Omicidio avvenuto nell’agosto del 1944 a Rignano sull’Arno pochi chilometri da Firenze. Il libro si intitola Il sangue degli Einstein italiani e sfogliandolo appena giunto sono incappato nell’ennesima coincidenza, una delle tante mie Sliding doors, nel fatto cioè che nell’indice dei nomi compaia quello di Nello Dini, babbo del mio amico Gianfranco, con cui in gioventù ho condiviso la prima fila di qualche corteo, ben protetto dalle sue poderose spalle di campione di rugby.

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