Amare e distruggere
Il grande David Grossman dovrebbe aver tracciato oggi al Piccolo Teatro Grassi di Milano – e la Repubblica ne dava in mattinata in anteprima un ampio estratto – l’elogio della gelosia, ignobile ma comprensibile e assai diffuso sentimento, dallo scrittore israeliano però paragonato allo stato d’animo creativo del romanziere o comunque dell’artista, perché entrambi – un Otello e un Dostoevskij qualsiasi – rapiti da un’ossessione, non così dissimili l’una dall’altra, quella che induce a pedinare il partner o a supporlo costantemente tra le braccia di un altro e dispensatore di languide occhiate a questo o a quello, ed al pari quella che il narratore riversa nelle sue pagine delirando situazioni inesistenti, inventate di sana pianta e con una cura maniacale dei dettagli sui personaggi, i loro dialoghi, le ambientazioni.
Vero o falso che sia l’accostamento, o più esattamente a prescindere da quanto sia credibile o incredibile, a me vien da pensare che se stesse in piedi – e forse ci sta per davvero, anzi io sono molto propenso a ritenere ci stia –, il parallelo sarebbe possibile con numerosi altri sentimenti e comportamenti umani e che insomma ogni ignobile lato del nostro animo – a fianco della gelosia, l’invidia, il rancore, il desiderio di sopraffazione, la malvagità vera e propria, il sistematico utilizzo degli altri finalizzato al soddisfacimento delle proprie necessità individuali – sarebbe portatore di progresso, innovazione, avanzamento, ed abbia insita una carica positiva, troppo spesso occultata dalle sole considerazioni morali che accompagnano malefatte, peccatucci ed abiezioni, o, per dirla in altro modo, è da ipotizzare che nelle zone d’ombra e negli anfratti più oscuri dell’individuo, nelle sue indicibili più intime pieghe, si annidi la stessa forza generatrice, solo apparentemente di segno opposto, solitamente attribuita a chi ha eretto cattedrali, composto versi, condotto eroiche gesta, partorito figli, sfiorato miracoli.
Nell’ultimo post qui pubblicato, Neuroconnessioni e altro, faccio riferimento al termine “disruptive”, letteralmente “perturbatore”, “di disturbo”, col quale si indicano quelle innovazioni che sconvolgono o ridefiniscono radicalmente un’impresa, il suo ruolo nell’ecosistema produttivo delle imprese, lo stesso ecosistema produttivo delle imprese.
Si citano solitamente i casi di WhatsApp o Facebook Messenger che hanno stravolto il mondo delle telecomunicazioni, Ryanair nell’industria del trasporto aereo, Uber nel campo del trasporto urbano. Scoperte o invenzioni che sull’altare del proprio successo decretano, quanto meno apparentemente, la catastrofe e la rovina di altre imprese o di settori economici.
Non ho gli strumenti per valutare l’effettiva deflagrazione di tali miscele esplosive sul piano dell’economia e delle abitudini umane, a me interessa solo il concetto linguistico che credo andrebbe accostato ai celebri versi del poema di Oscar Wilde La ballata del carcere di Reading, ripresi nella canzone che Jeanne Moreau canta in Querelle di Fassbinder: «Each man kills the thing he loves». Ogni uomo uccide le cose che ama, questo dice la strofa.
Un concetto analogo lo riprende Sting nella splendida e vampiresca, anzi licantropica, Moon over Bourbon Street, della quale ho dato una mia personalissima traduzione in My moon, laddove il cantante dei Police recita «I must love what I destroy and destroy the thing I love», devo amare cosa distruggo e distruggere cosa amo.
Elevatissimi, quasi assoluti, e così in basso da rasentare l’ignobile. Ma Wilde conclude: «For each man kills the thing he loves, / Yet each man does not die». La traduzione che leggo è «perché ognuno di noi uccide ciò che ama / eppure non è costretto a morirne», ma a me piace dargli quest’altro significato: «per ogni uomo che uccide le cose che ama / ce n’è già uno che non le fa morire».
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