Le mie scarpe
Ci sono ricorrenze che hanno tutta l’aria di essere solo escamotage per strappare, a cura dell’ufficio stampa e promozione e della benevolenza del redattore di turno, il quantitativo maggiore possibile di quell’unità di misura che nelle redazioni dei giornali prende il nome di “modulo”: rettangolini larghi una colonna e solitamente alti un paio di righe nei quali è suddivisa la pagina di un giornale nel suo formato in scala detto menabò e con cui si conteggia lo spazio acquistato da un cliente per pubblicizzare i suoi prodotti.
A chi verrebbe infatti in mente di festeggiare e suonar le campane e produrre altro clamore per i 65 anni di qualcuno, non i 60 o i 70, o ancor più i 100, che avrebbero un senso, ma i 65, età tutt’al più coincidente con il diritto alla pensione? Nella fattispecie non di qualcuno si tratta, ma di qualcosa, per l’esattezza di qualcosa che indosso con regolarità e prevalenza – come possono testimoniare, se non sbaglio, foto d’epoca in cui sono ritratto – da almeno 55 di quei 65 anni, perciò, a costo di essere scambiato anch’io per il benevolente e forse “unto” redattore di turno, intesso anch’io l’elogio e canto le laudi delle Clarks, più precisamente dei Desert Boots, un modello di polacchine prodotte, stando a quel che leggo, a partire dal 1950 – sette anni prima che io nascessi – da un calzolaio inglese, Nathan Clark, arruolato durante il secondo conflitto mondiale nella leggendaria 8th Army, che noi traduciamo in Ottava armata, unità operativa dell’esercito di sua maestà britannica, impegnata in Medio Oriente a partire dall’estate 1941 e poi anche nello sbarco in Sicilia per partecipare alla liberazione dell’Italia, comandata tra gli altra da Alan Cunningham, Bernard Montgomery e Richard McCreery.
Orbene, il soldato Nathan, esperto di stringhe, tomaie, suole e tacchi, mestiere imparato dal padre in un’azienda calzaturiera fondata 190 anni orsono, un giorno vide in un suk del Cairo alcuni suoi commilitoni in procinto di essere trasferiti verso la Birmania, con i loro Sten, le Smith & Wesson, le Browning e gli Enfield in quella divisa color caki, che, mal riforniti dal comando centrale per quanto concerneva le calzature, ne acquistarono di artigianali fatte in quell’angolo di terra e tornato in patria dopo la fine del conflitto, tentò di replicarle, parendogli particolarmente confortevoli con quella tomaia scamosciata, fatta di due soli pezzi di pelle, alla quale cucì con del cordoncino bello spesso e resistente, delle suole di para ruvida che ci cammini sopra e ti par d’andare scalzo, ed hanno grip – aderenza – fintanto che non si calpesta un marciapiede liscio e bagnato.
Le mise in produzione e non ebbe un gran successo lì per lì, ma poi cominciò ad esportarle negli Stati Uniti – le indossa Paul Simon nella copertina di uno dei suoi più celebri album con Art Garfunkel, direi dove cantano The Boxer e The bridge over troubled water – e nel resto d’Europa, dove invece esplosero come un oggetto di culto, mai esattamente alla moda ma sempre impeccabilmente portabili in quasi tutte le occasioni, basta avere un tocco di attenzione.
Le ho indossate davvero fin dall’infanzia, forse non di marca, finché non ho potuto permettermele, ma imitazioni dell’imitazione, perché avevo le caviglie fragili, tendevano a piegarsi ed una volta dovettero bendarmene una con stoppia e chiara d’uovo perché s’era slogata. E quelle, i Desert boots, anzi le Clarks come poi sono state universalmente chiamate, la caviglia, con maggiore o minore pressione a seconda di quanto vengano stretti i lacci, la tengono ferma, sicuro il passo.
Quando arrivai a Bologna nei primi anni Novanta a fare il caporedattore de l’Unità e Veltroni s’era inventato le due pagine delle storie che Fernanda Alvaro dirige encomiabilmente, chiesi a Mauro Curati di raccontare la storie dell’imprenditore bolognese, non ne ricordo più il nome, che le aveva importate per primo in Italia, facendo la sua e la loro fortuna, e disseminando la mia generazione di quel segno di riconoscimento, nel quale ancor oggi, mi piace percorrere le strade e mettere un piede dietro l’altro, anche nei momenti in cui ti vien da canticchiare «scarpe rotte eppur bisogna andar».
Tags: Mauro Curati, Walter Veltroni