La città della scienza 4.3.

E il padrone dimenticò il mercato

Valfivre. Le occasioni mancate di un’azienda proiettata nel futuro

La città della scienza 4.3.

Su «L’Espresso» del 14 febbraio 1988, un articolo a firma Carlo Gallucci, riporta i dati di uno studio realizzato da «uno dei più prestigiosi centri di ricerca al mondo, lo Stanford Research Institute di Menlo Park in California» e pubblicato in Italia col titolo [Sette chiavi per il futuro] (Edizioni del Sole 24 Ore). Risultato: le aziende italiane compaiono poco, quasi per nulla, nel panorama mondiale della ricerca industriale. L’ultimo capitolo dell’articolo è dedicato ai laser. Scrive Gallucci: «Su un elenco di 106 produttori di laser riportato in [Sette chiavi per il futuro] appare un solo nome italiano, tra l’altro poco noto: la Valfivre di Firenze, specializzata in applicazioni mediche e industriali. Una sola azienda: meno di India e Israele».

Dunque è Firenze la capitale italiana del laser? Ci siamo messi in cerca di notizie su questa Valfivre e tutte le volte che abbiamo fatto questo nome la gente storceva la bocca. Qualcuno allibito ci ha chiesto: «Esiste ancora?».

Ecco la storia di un’azienda che in fatto di ricerca e tecnologia aveva (e potrebbe avere) tutte le carte per essere all’avanguardia, ma che ha fatto una brutta fine perché il vecchio padrone non sapeva vendere i proprio prodotti.

C’era una volta una fabbrica di antica data. Una grande fabbrica. Si chiama Fivre. Apparteneva al gruppo Marelli e faceva cinescopi e valvole. Ad un certo punto cominciò ad occuparsi anche di laser Nel 1976 fu acquistata da un imprenditore milanese, un certo Lamarca. Cambiò nome all’azienda da Fivre in Valfivre. Bloccò gran parte della produzione di valvole e dette impulso alla ricerca sul laser nelle sue applicazioni industriali e medicali. A cosa serve il laser nell’industria e nella medicina? Nell’industria lo usano per tagliare: lamiere, substrati ceramici per l’elettronica, modelli per la cartotecnica. E ancora per saldare, forare, sagomare. E negli ospedali in chirurgia, per la terapia del dolore, per togliere tonsille e otturare carie, per far passare le tendiniti e cauterizzare le piaghe. Per dieci anni la Valfivre va avanti. I 110 dipendenti sono dei metalmeccanici atipici: sono quasi tutti impegnati nella ricerca oppure sono impiegati e comunque hanno qualifiche alte. All’azienda arrivano parecchi miliardi dall’Imi, dal Cnr, dall’Istituto tumori di Milano, dalla Fiat, dal gruppo Breda. Tutti hanno dei problemi da sottoporre in fatto di laser. E nell’azienda si studia, si studia, si perfezionano le macchine, si inventano soluzioni tecnologiche all’avanguardia. Ma il signor Lamarca non si occupa minimamente di far vendere quelle macchine. Né di renderle, oltre che funzionali, belle, appetibili, con un po’ di look. Nel 1986 arriva una grande crisi. Quelle storie di cassa integrazione, di minacce di chiusura, di gente che d’un tratto si trova sull’orlo della disoccupazione.

«La compro io, la compro io». Si fanno avanti in molti, dicono la Ote, qualcuno parla degli americani. Ed ecco alla fine dell’87 farsi avanti gli imprenditori fiorentini. Targetti e Pecci in cordata con un’azienda di Modena da tempo specializzata nella macchina dal raggio verde: la Spacelaser. Arrivano i nostri? No, non è il Settimo Cavalleggeri. Comprano per un pungo di dollari, davvero. Sede, tecnologie e 23 dei 110 dipendenti per una manciata di soldi. Buttano a mare le valvole e puntano tutto sul laser, su quello che per molto tempo è stato chiamato il «raggio della morte» mentre ha dimostrato di poter essere il «raggio della vita». Spaccano l’azienda in due, LaserValfivre e Centro Laser, per non applicare lo statuto dei lavoratori.

Si giustificano dicendo che una è un’azienda di servizi. Ma i lavoratori sono gli stessi e fanno le stesse cose nello stesso posto. Di ricerca non si parla più anche se, malgrado la decimazione, le teste sono rimaste. Non ci sono più i 5-6 ingegneri che un tempo erano pagati solo per inventare né l’unico esperto italiano di laser a stato solido. Ma i tecnici che si sono fatti le ossa escogitando marchingegni e innovazioni per il laser ad anidride carbonica si. E così si rischia l’errore inverso: prima era un’azienda molto avanzata, che aveva confidato troppo sulla possibilità di far soldi facendo solo ricerca e che non si era posta il problema di vendere quel che produceva. Ora si battono le porte delle cliniche private dove con il raggio mandano via la cellulite offrendo macchine che costano sui 30-35 milioni e a cui si sta cercando di dare una patina di bell’oggettino da vedere, un po’ come con gli hi-fi senza curarsi di quali altri campi di applicazione potrebbe avere il laser. E pensare che di aziende che producono laser per l’industria al mondo ce ne saranno meno delle dita di una mano.

L’Unità, venerdì 9 dicembre 1988

Leave a Reply