Interviste impossibili

Cerco a caso la sua firma nell’archivio storico, preziosa, encomiabile, sana iniziativa, sopravvissuta malgrado lo scempio a cui ci è toccato assistere. Cerco la sua firma nell’archivio storico del giornale nel quale ho avuto l’onore di lavorare per più di 20 anni e il primo articolo che mi compare – ma, ripeto, si tratta solo di una ricerca a caso – è del 19 gennaio 1986.

È vero, non lo ricordavo: teneva una rubrica o, quanto meno, aveva messo in cantiere una serie di articoli, che venivano presentati in prima pagina con una scritta in negativo, bianco su nero, di traverso dentro un tondo: “Una giornata con…”.

Quello che mi è capitato nella mia casuale ricerca racconta di Luciana. «La prima è una Golf scura, targata Bologna. C’è un ragazzo sui venticinque anni. Contrattazione rapida. Luciana monta e la macchina si allontana. Sono le dodici e mezzo di notte. Un’acquerella fredda e sporca scende sotto la luce giallastra del fanali, sopra i cumuli di neve ormai vecchia al lati della strada, contro le insegne luminose del grande albergo di fronte. Il posto è il quartiere della Fiera, in fondo a via Stalingrado, a Nord della città».

Inizia così il racconto della giornata trascorsa con Luciana, transessuale bolognese: dal soffritto di cipolle a base del risotto con zucchine – mangiando il quale lei narra di come ha iniziato a prostituirsi, dello spazio che ha l’amore, anzi non ha l’amore, quando vendi sesso, delle stravaganze di questo o quel cliente – fino all’ultima prestazione consumata nel cuore della notte in un piazzale desolato di questa città «dalla cappa molto grande».

A narrarlo, a narrare quel racconto, la giornata trascorsa con Luciana, un cronista che oltre a dar testimonianza, infarcisce di interrogativi, e tramite quelli induce qualche riflessione. È Eugenio Manca, inviato speciale de l’Unità della cui scomparsa la notte prima ho dato conto il 29 aprile scorso in un post che lo definisce amico non scaduto.

Eugenio Manca

«Se decidi di raccontare la giornata di qualcuno – scriveva Eugenio –, quella giornata poi la devi seguire tutta, non puoi fingere che finisca quando comincia, o ne comincia una parte importante. Cosi con Luciana. Il suo lavoro inizia a mezzanotte, sotto la pioggia se piove, alla luce giallognola del fanali, tra fari che occhieggiano e occhi che lampeggiano. Un po’ imbarazzato e un po’ sofferente, dove altro potrebbe stare il cronista se non dentro la penombra di un’auto, in disparte, sforzandosi di aguzzare occhi, orecchi, cervello, cuore per capire meglio il mondo che gli passa davanti?»

Ecco Eugenio: un po’ imbarazzato e un po’ sofferente, stare dentro la penombra, in disparte, sforzandosi di aguzzare occhi, orecchi, cervello, cuore per capire meglio il mondo che passa davanti. Non avrebbe potuto trovare parole migliori per descriversi e per indicarci una strada, un modo di essere, un’anima.

E per dirci come quel mestiere – che abbiamo condiviso e, tentando di emularlo, io ho cercato di fare come lo faceva lui – andrebbe svolto, con «occhi, orecchi, cervello, cuore».

Era attento Eugenio alla professione, al come ci si sporcano le mani, alla dignità di quello che sanno fare gli altri e noi neanche ci immaginiamo come avvenga, tanto da dedicare ai mestieri e ai ferri che occorrono per compierli, un libro, intitolato appunto I ferri del mestiere, dieci interviste pubblicate da l’Unità, con prefazione di Tullio De Mauro, a una restauratrice d’arte, Pinin Brambilla Barcilon; a un direttore d’orchestra, Giuseppe Sinopoli; a un fotografo, Gianni Berengo Gardin; a uno scultore, Giò Pomodoro; a un poeta, Giorgio Caproni; a uno scrittore, Vincenzo Consolo; a un editore, Elvira Sellerio; a un archeologo, Andrea Carandini; a un cantautore, Lucio Dalla; a una regista, Francesca Archibugi.

Le interviste erano proprio un genere che Eugenio Manca maneggiava con gran dimestichezza ed eleganza. Carlo Ricchini e Sergio Sergi, due illustri colleghi che con lui avevano a lungo lavorato, hanno avuto l’encomiabile idea di raccoglierne alcune che Eugenio aveva fatto per l’Unità e per la rivista della Cgil LiberaEtà. Ora per ricordarlo le hanno pubblicate con il titolo Non li abbiamo ascoltati. Peggio per noi (Ediesse edizioni, € 14).

Sono i colloqui e le domande poste a Cesare Zavattini, Eugenio Garin, Carlo Tullio Altan, Attilio Bertolucci, Franco Fortini, Margherita Hack, Mario Monicelli, Walter Binni, Joyce Lussu, Arrigo Boldrini, Lidia Storoni Mazzolani, Tonino Guerra, Roberto Roversi, Saverio Tutino, Fosco Maraini, Igor Man, Pinin Brambilla Barcilon, Ettore Scola, Fausto Tarsitano, Mario Luzi, Giuseppe Pontiggia, Alda Merini, Andrea Camilleri, Fernanda Pivano, Liana Millu, Antonio Tabucchi, Vincenzo Cerami, Dacia Maraini.

Spiegano Ricchini e Sergi nell’introduzione del libro: «Le interviste erano fra i suoi migliori lavori di giornalista. Amava incontrare i “vecchi intellettuali” con i quali intrecciava lunghe conversazioni, che poi offriva ai lettori con una scrittura semplice e coinvolgente».

Sono molto belle, nell’introduzione che scrivono Carlo Ricchini e Sergio Sergi, le parole che alcuni di questi intervistati, prendendo carta e penna ed imbucando poi la lettera indirizzata al cronista dell’Unità, usarono per ringraziarlo del garbo, della gentilezza, della fedeltà, della correttezza, dell’onestà che sono state un suo tratto caratteristico.

Così come un tratto proprio di Eugenio fu l’attenzione – ne ho già scritto nel post al momento della sua morte – a quelli che i due colleghi nell’introduzione chiamano gli “ultimi”: emigrati, zingari, gay, barboni, prostitute, ricordando che lui fu tra i primi ad occuparsene, ed io non escludo “il primo”, usando, anziché gli “ultimi”, gli “altri”, i “diversi”, la “fragilità”: a cominciare dalla gioventù, dalla femminilità, dalla malattia, dall’handicap e, sì, dall’emarginazione.

Domenica 11 ottobre a Orte c’è un incontro fra quelli che furono gli amici di Eugenio e su Facebook c’è una pagina dedicata al suo libro e nella quale vengono raccolte testimonianze per ricordarlo. Questo mio scritto è un invito, innanzitutto a comprare il libro.

P.S. L’aggettivo “impossibile” utilizzato qui nel titolo non allude a personaggi di fantasia o non più esistenti a cui porre una sequela di domande, come solitamente si intende con l’espressione “interviste impossibili”, ma alla statura degli articoli in questione, alle cui altezze è assai difficile, pressoché impossibile, giungere. Grazie Eugenio.

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