Ascoltiamolo, è meglio per noi

Non avevo proprio torto, da giovane cronista, a guardare con ammirazione un fratello più grande il quale definisce il campanile romanico della Basilica di Acquileia, che io purtroppo non ho mai visto, «un pugnale aguzzo confitto nella storia», misurandolo «alto settantacinque metri e mille anni».

Si serviva di quest’immagine Eugenio Manca – straordinaria firma de l’Unità che lo scorso marzo in una partita a scacchi con la malattia ha dovuto reclinare il re e darsi per vinto, vaffanculo! – per aprire uno dei suoi dialoghi – meriterebbe chiamarli così, in onore ai grandi filosofi, anziché interviste, benché magistralmente lo siano – con menti lucide e testimoni di un tempo che non c’è più.

Il dialogo è quello con l’antropologo culturale Carlo Tullio Altan ed è uno dei trenta contenuti nel libro Non li abbiamo ascoltati. Peggio per noi edito da Ediesse e curato da Carlo Ricchini e Sergio Sergi, la cui lettura ho già caldeggiato in un post del 27 settembre scorso, Interviste impossibili, scritto quando ho saputo dell’encomiabile iniziativa per rendere omaggio a quel collega, compagno, maestro, uomo, lo si chiami come si vuole. Io avevo optato per “l’amico non scaduto” in un altro post così intitolato, utilizzando la definizione che con me aveva dato di se stesso.

Gli altri dialoghi sono con personalità di spicco della cultura italiana – Cesare Zavattini, Eugenio Garin, Attilio Bertolucci, Franco Fortini, Margherita Hack, Lidia Storoni Mazzolani, Joyce Lussu, Mario Monicelli, Arrigo Boldrini, Walter Binni, Tonino Guerra, Roberto Roversi, Fosco e Dacia Maraini, Nuto Revelli, Saverio Tutino, Igor Man, Pinin Brambilla Barcilon, Fausto Tarsitano, Ettore Scola, Mario Luzi, Giuseppe Pontiggia, Alda Merini, Liana Millu, Fernanda Pivano, Andrea Camilleri, Antonio Tabucchi, Dino Risi, Vincenzo Cerami – intervistati da Eugenio per l’Unità o per il mensile del sindacato pensionati della Cgil LiberEtà fra il 1982 e il 2005.

Otto donne e 22 uomini, il più anziano dei quali (Zavattini) era del 1902 e il più giovane (Tabucchi) del 1943, intervistati rispettivamente quando avevano 80 e 61 anni. I superstiti, quelli ancora tra noi, a cui potremmo chiedere di dirci qualcosa di più, aiutarci a capire, darci un cenno, solo più quattro: la Barcilon, la Maraini, Camilleri e Scola, due novantenni, un ottantaquattrenne, una settantanovenne.

Ogni domenica su Repubblica Antonio Gnoli, con la sua rubrica “Straparlando”, sembra rinnovare questa tradizione in cui Eugenio si era specializzato, quella appunto di andare a raccogliere attendibili, autorevoli, illuminanti pareri ai vecchi, agli anziani, a chi ne sa più di noi, a chi ne ha viste di più e può solo esserci d’aiuto.

Eugenio Manca

Ma ad onor del vero Eugenio Manca – che dinanzi a tutti quegli intervistati era comunque il più giovane, essendo nato nel 1944 a Lecce – non era solo un dispensatore di altrui saggezze, un mediano delle riflessioni tardive, il portaborse di un senato delle intelligenze. Era invece anche uno dei più attenti osservatori non solo della gioventù e di cosa questa ci portasse, magari in malo modo, in dote, ma anche di tutto ciò che con il sapore del nuovo nel campo almeno dei costumi e dei valori si affacciava come fanno i primi fiori allo sciogliersi delle nevi.

È stato giustamente chiamato “il giornalista amico delle donne” e direi che questa attenzione alle donne o ai vecchi facesse parte di una più vasta predisposizione verso il debole, il fragile, il vulnerabile. Per cui al centro dei suoi articoli spesso c’erano i bambini, gli handicappati, i malati, i terminali, i marginali, quelli che hanno fatto altre scelte.

E anche in queste interviste che Ricchini e Sergi hanno riproposto, ci sono, mi pare, le domande ai giovani che erano stati più che ai vecchi che lui aveva dinanzi. O più esattamente a entrambi.

Sì, c’è un filo di nostalgia per il tempo andato e, più che altro, perduto, ma c’è, mi sembra, la spasmodica ricerca di quanto era stato rivoluzionario, dissacratorio, anomalo, irreggimentabile in personaggi che avevano scardinato, osato. Che forse, a loro modo, avevano portato i capelli lunghi o osato un’esperienza psichedelica, al pari dei fricchettoni.

Per questo, non me ne vogliano i due curatori, trovo inappropriato il titolo scelto per questo bellissimo libro da leggere assolutamente: perché, per quanto poco abbia potuto frequentare Eugenio, io non ce lo vedo proprio a dire a qualcuno «Peggio per te». E nelle domande che lui fa e nelle risposte che lui raccoglie questo rancore, questo sdegno, questa acrimonia, questa filistea maledizione non ci sono.

Io Eugenio, il cui solo nome di battesimo racchiude questo senso di vitale benevolenza, continuo a vivermelo come uno che, con tutta l’amarezza che si può avere in corpo, con tutta la disperazione vissuta sulla propria pelle, è pronto a spendere una parola di conforto e ottimismo, a riproporre le riflessioni dei vecchi saggi, ad invogliare ad ascoltarli, ripetendoci che «è meglio per noi».

Anche perciò val la pena leggere questo libro.

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