Benefica o malefica? Musica

Avevo conservato due ritagli di giornale tratti dal medesimo numero di Repubblica, quello di sabato 7 novembre scorso, uno a pagina 35 e l’altro a pagina 55, il primo scritto da Giuseppe Videtti e il secondo da Valerio Magrelli. Li ho tenuti perché hanno un argomento comune e una evidente contraddizione.

La musica è la mia cura, titola il primo, un’intervista a Giuliano Sangiorgi che – io lo ignoravo – è il leader dei Negramaro, gruppo rock italiano nato nel 2001. Precisa un occhiello: «Scrivere canzoni mi ha fatto accettare il dolore». Nel testo infatti il cantante spiega che due canzoni scritte subito dopo la morte del padre lo hanno cambiato: «È stato come un vaccino, mi hanno dato tutto il dolore del mondo in un’unica soluzione, un antidoto per crescere e rivoluzionare me stesso attraverso quella drammatica esperienza».

Che la musica sia benefica lo conferma il fatto che ritmi, melodie, note e accordi vengano impiegati in una disciplina inequivocabilmente dedita fin dal suo nome a guarire, la musicoterapia, il cui uso, spiega Wikipedia, «è documentato in numerose civiltà dal mondo antico ad oggi, prevalentemente all’interno di un modello di pensiero magico-religioso o sciamanico». La musicoterapia come disciplina scientifica si sviluppò tuttavia «solo all’inizio del secolo XVIII: il primo trattato di musicoterapia risale alla prima metà del Settecento a cura di un medico musicista londinese, Richard Brockiesby. I primi esperimenti di musicoterapia in Italia furono attuati nel Morotrofio di Aversa a partire dal 1843 da parte di Biagio Gioacchino Miraglia».

Il musicoterapeuta come «figura professionale di tipo sanitario o sociosanitario» non è attualmente ancora riconosciuta in Italia dal Ministero della salute e tuttavia un paio di Decreti ministeriali autorizzano l’attivazione di corsi accademici sperimentali in alcuni Conservatori.

L’altro articolo contenuto nel medesimo numero di Repubblica, quello di Valerio Magrelli, recensisce un saggio di Pascal Quignard pubblicato in Francia nel 1996 ed ora tradotto in italiano con il titolo L’odio della musica, nel quale quest’arte viene descritta «come un pericolo incombente sulla cultura umana».

Proprio così c’è scritto: la musica «come un pericolo incombente sulla cultura umana» e Magrelli rammenta come illustri predecessori – Lev Tolstoj e Thomas Mann all’apice – abbiano sposato questa tesi alla quale io mi sono abbeverato sentendo la potenza mefistofelica di questa musa.

Chi volesse intrufolarsi nei due classici appena citati deve andare a leggersi Doktor Faustus e La sonata a Kreutzer, sicuro di imbattersi in due capolavori, pronto però a misurarsi con lo sconvolgente.

Relata refero: «Tra tutte le arti – scrive Quignard –, la musica è l’unica ad aver concorso allo sterminio degli ebrei organizzato dai tedeschi tra il 1933 e il 1945. È l’unica arte richiesta in quanto tale dall’amministrazione dei Konzentrationslager. Occorre sottolineare, a suo discapito, che è l’unica arte che sia riuscita ad adattarsi all’organizzazione dei campi, alla fame, all’indigenza, al lavoro, al dolore, all’umiliazione e alla morte».

Nulla di nuovo sotto il sole. Del resto la contrapposizione tra apollineo e dionisiaco, tra la lira del primo e il flauto del secondo, è antica quasi quanto il mondo e per chi non crede alle cosmogonie teologiche anche di più, avendo l’armonia dei corpi celesti preceduto la formazione dell’universo e di noi miseri mortali che lo abitiamo spesso accompagnandoci con sinfonie, concerti, canzonette.

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