Una “Mattina”, appena alzato

Alla redazione di via Barberia

Pietro Spataro, a cui Concita De Gregorio ha affidato il coordinamento delle iniziative speciali de l’Unità – in genere un ruolo per togliersi di torno qualcuno, ci son passato anch’io e conosco qualche altro collega in analoga posizione –, dovrebbe essere stato l’ideatore dei nuovi dorsi regionali del giornale fondato da Gramsci nel 1924, un tempo organo del Partito comunista italiano fin che questi non defunse. Sono dei tuorli che stanno nell’albume del giornale nazionale a cui fa da guscio la prima pagina, con gli strilli, i richiami e l’apertura, quasi sempre un’immagine e un titolo più che un testo – ah immagine, immagine!

Pietro Spataro è anche il nocciolo di un frutto che dentro quel giornale sta cercando, mi sa un po’ a fatica, di dar un po’ di spazio alla memoria, al ricordo, alla riconoscenza, alle cose come stanno non sempre e solo come uno vorrebbe che stessero o siano state. Intendo dire che Pietro è quello che dentro al giornale – non fuori come noi –, presumo per un debito di riconoscenza e senso di restituzione, sta cercando di dar fiato a una testimonianza dinanzi a un uomo che ci ha insegnato molto, che lo si abbia conosciuto personalmente o solo letto come me: Bruno Schacherl.

Non sto a tornar indietro a cos’è stato Pietro, nel bene e nel male, nei suoi dolori e nelle sue mancanze, nelle sue intuizioni e nelle sue distrazioni, in quella rivoluzione che fu l’Unità 2, la vendetta. Mi limito all’oggi, ai dorsi che s’è inventato e che assomigliano un poco alle Mattine, panini locali nei quali – sotto la miglior direzione de l’Unità da me conosciuta, quella di Walter Veltroni fra il 1992 e il 1996, mestiere che sapeva fare e che, a parte qualche  svista commerciale, qualche genuflessione ai poteri forti, qualche mobbing o promoveatur ut amoveatur esageratamente costoso, sarebbe stato meglio avesse continuato a fare, anziché costringermi a mettere una cozza addosso a Romano Prodi, ringalluzzendo un senatore di poco spessore e oggi molto assicurato, però animando il più bell’esperimento di rinnovamento della politica italiana, ovvero i Comitati dell’Ulivo fatti di boy scout e figgicciotti, di aderenti all’Avo o alla Misericordia di Vaiano, se non ci fossero state le giuste remore sul ruolo di Romanone nella vicenda Cirio ed altre sciagure (non tali, però, da star dalla parte di Arcore!), tuttavia gente con “passione” per la politica –; panini locali nei quali, scrivevo, vi han lavorato fior fior di giornalisti e molti giovani scrittori.

La redazione de l'Unità di Torino nell'immediato dopoguerra

Ho avuto l’onore di lavorare per Alfredo Reichlin fra il 1978 e il 1980, per Emanuele Macaluso fra il 1982 e il 1986, per Gerardo Chiaromonte fra il 1986 e il 1988, per Renzo Foa coi suoi difetti fra il 1990 e il 1992, per Mino Fuccillo, coraggioso e leale testimone e difensore, nel 1998. Non posso dire che siano stati esenti da errori e imperfezioni, chi ne è esente, ma son lieto di averli serviti. Purtroppo mi è toccato lavorare alle dipendenze di Claudio Petruccioli fra il 1980 e il 1982 e beccarmi il caso Maresca; per Massimo D’Alema fra il 1988 e il 1990 e sorbirmi, oltre al suo disprezzo per il Contratto nazionale dei giornalisti e più in generale per i giornalisti tranne quelli che gli tirano o gli hanno tirato la volata, anche le sue distrazioni con Tetris e gli origami; per Giuseppe Caldarola fra il 1996 e il 1998 e di nuovo fra il 1999 e il 2000 che, a parte un gran bel pezzo sulla morte di sua padre, non ha lasciato traccia, se non la firma sotto al nostro epitaffio e l’unica cassetta venduta in edicola senza giornale, oltre che un posto in Parlamento; per Paolo Gambescia che, dopo La città futura riesumata, fra il 1998 e il 1999 è venuto a killerarci in cambio di un Mattino prima e un Messaggero poi.

Mi sono mancati all’appello, per ragioni anagrafriche, Ottavio Pastore nel 1924; Alfonso Leonetti fra il 1924 e il 1925; Mario Malatesta nel 1925; Riccardo Ravagnan fra il 1925 e il 1926; Girolamo Li Causi nel 1926 di cui ho sentito dire un gran bene; Eugenio Curiel fra il 1943 e il 1944 che nel mio immaginario e nei miei studi è più di un mito; Celeste Negarville fra il 1944-1945 che è un eroe; Velio Spano fra 1945 e il 1946; poi Mario Montagnana fra il 1946 e il 1947, il quale a Torino lasciò le redini in mano a Marco Vais, che non viene citato nelle cronache ufficiali, perché ci si dimentica che nel dopoguerra l’Unità era un insieme di giornali locali, a Torino, a Milano, a Genova, a Firenze, a Roma, forse a Napoli. Nel capoluogo piemontese ci han lavorato mia madre e mio padre (si vede solo lui nella foto, il secondo accovacciato a sinistra, lei era solo! una segretaria di redazione e di sesso femminile), al centro spiccano Palmiro Togliatti e Mario Montagnana, e il grande Andrea Liberatori (il penultimo a destra nella foto), e Italo Calvino e Cesare Pavese (assenti per l’occasione), Sergio Segre (l’ultimo a destra nella foto), Cesare Pecchioli, fratello di Franco e Manfredo Liprandi, Alfonso Gatto, Gianni Rocca, anima di Repubblica, Paolo Spriano, Giglio Pansa, Giulio Goria, Raimondo Luraghi, intenditor di Sioux e Giubbe blu, ma i miei genitori sono anziani e fanno un po’ di confusione, soprattutto da 45 anni non vanno per niente d’accordo, neanche sulle didascalie d’una foto. Mi son mancati all’appello Pietro Ingrao fra il 1947 e il 1957, e io l’ho potuto intervistare solo negli anni Ottanta in occasione di un congresso della Fgci nel corso del quale mi umiliò come più poté e poi quando partecipò al Social Forum di Firenze voluto da Claudio Martini che ci ha fatto eccitare un po’ tutti; mi son mancati Alfredo Reichlin fra il 1957 e il 1962; Mario Alicata fra 1962 e il 1966; Maurizio Ferrara fra il 1966 e il 1970, che ha dato origine a una stirpe non tutta perfettamente congegnata; Giancarlo Pajetta nel 1970, ed io ho potuto intervistarlo solo qualche anno dopo quando scrisse roba che andrebbe riletta; Aldo Tortorella, fra il 1970 e il 1975, di cui all’epoca avevo un gran rispetto tanto da aprirci il giornale che avevo fondato nel 1977 e si chiamava Concentramentorenove, ma che l’ultima volta che l’ho incontrato a Firenze per portar ricordo a Cesare Luporini m’è parso ritratto nell’empireo o nella Terrazza di Scola o in un rancore senza fine. Poi Luca Pavolini fra il 1975 e il 1977. Aprés de moi, a parte, le diluge, Furio Colombo fra il 2001 e il 2005, bella mente ma non mi sembrava trombata a questa incombenza, Antonio Padellaro fra il 2005 e il 2008 che ora ha passato il testimone a Concita De Gregorio, bella penna e incazzereccia combattente che però alcune cose ce l’ha da spiegarci e noi le comprenderemo.

Parentesi storica a parte, stavo spiegando che Pietro Spataro, trovandosi costretto a far le nozze coi fichi secchi, perché Roma, con o senza messa, val sempre più di una messa a Firenze o a Bologna – e questa è la condanna non solo de l’Unità, ma anche di tutti i cloni del Pci più o meno giustamente partoriti dopo la Bolognina (la Cosa, il Pd, l’Ulivo, il Pds, i Ds, il Pd, me li scordo tutti, mi sembrano il geniale Zelig di quel quasi pedofilo di Woody Allen, gran regista, per carità, ma per favore… ecco mi sento già la querela e l’ingiunzione al pagamento) – e Rachele più di Andrea o Monica più di Dario o una femmina più d’un maschio, o un’agente segreto esperto di tennis, maschio o femmina, più d’un nerista; insomma, dicevo, trovandosi costretto a far le nozze coi fichi secchi, o a tirar fuori il sangue dalle rape, Pietro s’è inventato quel che costò un litigio a morte tra me e Zollo, Veltroni e Gabriele Capelli. Litigio morto e sepolto, eppur statovi, senza che questo ci porti all’astio e al rancore, in particolare con Antonio che, come qualcuno m’accusa, avrei bonariamente appeso a una forca.

L’idea che avevo io e loro mi hanno bocciato – nel caso di Gabriele beffardamente deriso, per poi rimangiarsi la patata –, era quella d’un giornale regionale – l’Emilia-Romagna o al massimo l’Emilia e la Romagna, tagliandole in piazza Maggiore per quel che mi riguardava, e Firenze e la Toscana, per quel che riguardava Gabriele – non provinciale – Bologna, Modena, Reggio Emilia, Parma e Piacenza, Ferrara, Rimini, Forlì, Cesena, di là d’Appennino e Firenze, Prato, Empoli, Pistoia e Valdarno qui, mentre il resto confuso fra Grosseto, Siena, Arezzo, Livorno boiadé, Pisa che sta all’uscio come un morto alle porte, Lucca, Massa e si badi bene Carrara coi suoi anarchici senza trattino, nonché Pontedera cha dà i natali ai presidenti, nonché una florida industria delle due ruote, e anche Piombino che per via dell’acciaio non è provincia di Livorno ed io suggerirei anche San Gimignano non solo per le sue torri, ma per la sua origine etrusca.

Ci becchettammo senza respiro ed anche sul nome, sulla testata, quell’idea di morir nello spazio di poche ore, fino al sopraggiungere del pomeriggio o dell’ora di desinare. L’abbiamo fatto, Antonio, Gabriele ed io, e un po’ anche, ma di striscio, Amato Mattia ch’era un avvoltoio ma con la testa sulle spalle, a differenza dei poligrafici prestati al management dai quali tengo fuori Seriano Collini, rimasto modestamente e grandiosamente tipografo per tutta la vita. Io mi son tenuto nella mia testa le idee sul giornale regionale, coi tamburini fatti per film e non per strade, per qualità e non per quantità, con la 2 e la 3 dedicate a un fatto, non a una notizia. E avevo già in mente l’integrazione con l’sms, l’e-mail, il telegramma.

Buttato tutto nel cesso, per dar ragione a 3 segretari di federazione, il più importante dei quali, al sabato o al sabatino, valutava l’importanza degli editoriali dal numero di colonne, senza contare che anche Togliatti li conteneva entro le due, e non avrebbe mai venduto Bologna a Guazzaloca solo perché a candidarsi c’era una donna.

Come Garibaldi, finalmente assai in auge in questo momento, anche allora ho obbedito, imberbe barbuto, ed anche un po’ timoroso o consapevole del limite o solo modesto. Spataro ce l’ha fatta e l’Unità in Toscana e in Emilia si chiama Toscana ed Emilia, e quando le cose hanno il loro nome, come mi hanno insegnato Giuliano Toraldo di Francia e Maria Luisa Dalla Chiara Scabia, tutto è più chiaro.

Caro Pietro, a Zollo, a Capelli e a me ci hanno spinto a far Mattina per farci fuori e per far fuori compagni, colleghi, professionisti, provinciali, disoccupati, precari, service, periferici, non lobbysti, per esternalizzarci o paninarci, per Sert-arci, delocalizzarci, sminuirci, de-romanizzarci. L’abbiamo fatto in fede e con altro intento: Antonio, Gabriele ed io. Non cascarci nel tranello, non uccidere sbarbinelli del giornalismo un po’ confusi e molto distratti come noi non l’eravamo, ma non per questo killerabili. Non farlo, ti prego, in cambio d’uno stipendio che si avvicina a una pensione. E dammi atto che l’idea del giornale regionale era mia. Me l’hanno stoppata un sabato, o un sabatino, piccino, piccino, piccino.

Dunque Pietro, come ho avuto modo di ricordare alla tua nuova segretaria di redazione, Antonella Cajafa, che s’è impegnata in prima persona, al Gramsci di Bologna c’è Mattina microfilmata, e le altre edizioni stanno altrove, basta andarle a cercare, così come Rinascita, Anteprima, Tango, Cuore, Diario, Metropolis, cosa lascio per strada? Vedi che l’Unità non dimentichi di archiviarle on line, nel bel pozzo della propria memoria consultabile da chiunque a www.unita.it (quanti articoli, apostrofi, accenti si perdono a stare in rete!), perché, per quanto marginali o provinciali o episodiche o poco romane, son la sua storia e l’abbiamo fatta noi. C’eravamo e ci siamo, e Heidegger avrebbe parlato di Dasein, esserci.

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3 Responses to “Una “Mattina”, appena alzato”

  1. fabiola moretti scrive:

    Complimenti per la sintesi e la chiarezza, e l’intuizione di chi è troppo in anticipo sui tempi non ancora maturi.
    Meglio tardi che mai!

  2. lina senserini scrive:

    Con ‘Mattina’ ho cominciato a fare questo mestiere.
    La considero – per il significato che ha avuto e le cose che mi ha permesso di imparare, ma anche per le persone con cui ho lavorato, a cominciare da Gabriele Capelli e da te, Daniele – un’esperienza esaltante senza la quale non avrei mai fatto questo mestiere. Ci ha lasciato orfani, ma del resto la ha fatto anche l’Unità….
    Go on writing, crazy diamond!

  3. seriano collini scrive:

    caro Daniele, per caso sono “incappato” sul tuo articolo in cui mi citi troppo bonariamente. Non sei stato da me dimenticato, rincorrendo il tempo che fu mi ti ricordo simpatico, impegnato e (non è poco visto i tempi) molto rispettoso ed educato nei confronti degli altri. Un fortissimo abbraccio. Seriano

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