Stranieri 4/1: cuochi egiziani

Svanisce ben presto il sogno di aver trovato nuovi Eldorado

«Perché l’Italia? Perché è l’Europa, ma con calma». Mahmoud Ibrahim, 42 anni, egiziano, risponde così a chi gli chiede una spiegazione della sua scelta. Dice che, nel suo caso, è stata una scelta «esistenziale», ma che per gli altri suoi connazionali è l’abbaglio di un facile guadagno che ben presto si rivela ingannevole, falso.

La sua storia è atipica. Quando stava in Egitto avrebbe potuto scrivere un’inchiesta sugli stranieri nell’antico paese dei faraoni. Faceva infatti il giornalista, poi il direttore di palcoscenico, il regista teatrale. Insomma, l’intellettuale. Ed eccolo sbarcato in Italia poco meno di dieci anni fa a lustrare scale e a far brillare vetri, facchino prima, lavapiatti poi. Ha munto mucche in veste di stalliere con tanto di diploma apposito. E ancora ceramista fracassa strade con il martello pneumatico e di nuovo barista-cuoco-lavapiatti-tuttofare di ristorante.

È pieno di ironia, anche su sé stesso. Ride di Andy Luotto che fa il verso agli arabi, ma si lamenta del luogo comune. «Anche noi abbiamo una cultura – dice – e non è da poco». Si rammarica semmai che tra Italia ed Egitto non c’è scambio culturale. «Voi conoscete poco di noi – dice guardando fisso negli occhi – e noi poco di voi. I rapporti economici tra i nostri paesi sono cresciuti molto e richiedono anche che ci si conosca meglio. Questo vuol dire anche che dovete abbandonare il preconcetto che noi siamo tutti fanatici, che noi diciamo solo Allah, Allah».

Ripartiamo da capo. Ibrahim, perché sei venuto qui? La prende larga: «vuoi sapere di me o degli egiziani?». Appurato che voglio sapere di tutti e due dice:«Gli egiziani stanno bene in Egitto.

C’è una legge che permette a tutti di lavorare, una volta terminata gli studi. Chi emigra lo fa perché pensa di poter stare meglio. Non ci sono problemi di contrasto con il regime. Dicono: “vado via un po’ di tempo, quanto basta per mettere un po’ di soldi da parte. Poi torno e mi compro una casa o un pezzo di terra o apro un negozio”. Ma è qui che scatta la trappola. Qui non si fanno soldi, perché la vita è molto cara. I soldi li fanno quegli egiziani che emigrano in Iraq, in Algeria, in Arabia. Lì le condizioni economiche sono più favorevoli. Però capita spesso che chi arriva qui poi ci resta, perché il livello di vita è più alto che in Egitto. Si spende molto di più, ma si hanno anche più soldi da spendere».

E tu? «Io ho lasciato l’Egitto perché volevo vedere l’Europa. Ero curioso di conoscere i paesi della antica democrazia. L’Italia poi è il meridione dell’Europa. La gente è più simile a noi. Sono ancora caldi, pieni di bontà. E poi qui non c’è il problema razziale, anche se ci sono segni di intolleranza e di fanatismo. Aggiunge che voleva vedere Pirandello e Goldoni da vicino, andare nel paese di Alberto Moravia. Dice: «Ho capito che l’Italia è un paese che assomiglia all’Egitto vedendo i film del neo-realismo».

Ibrahim col tempo si è attaccato a questo paese, anche se dice che non sa se ci resterà, cosa farà domani. Si è sposato con una donna italiana e vive con lei a Borgo San Lorenzo. Con molta lucidità punta il dito su una delle più marcate contraddizioni degli immigrati stranieri in Italia. «Per lavorare in Italia – dice – è indispensabile il permesso di lavoro. In questura lo danno solo se sei iscritto all’ufficio di collocamento. Ma qui, per iscriverti, ti chiedono il permesso di lavoro che viene rilasciato dall’autorità di pubblica sicurezza. È un circolo vizioso. Una volta bastava andare con il datore di lavoro al collocamento e poi regolarizzarsi alla questura. Ora la trafila è diventata lunghissima, nessun titolare di ristorante ha intenzione di perdere tutto quel tempo per metterti in regola. E così si finisce per fare i lavoratori “clandestini”. Nessuna garanzia, nessuna sicurezza, solo precarietà».

Il caso di Ibrahim è ancora più complesso. Dal momento che si è sposato con una donna italiana gli hanno concesso la residenza per «motivi famigliari» e non per «motivi di lavoro». È il capofamiglia, pertanto è sua la responsabilità di realizzare il reddito. Ma ogni volta che si presenta all’ufficio di collocamento per trovare un lavoro gli cambiano il motivo di soggiorno: motivo di lavoro, non famigliari. Questi tornano non appena perde o lascia un posto. Una volta aveva anche il libretto di lavoro. Ma quando nel 1981 il governo ha deciso la sanatoria dei lavoratori stranieri, la prima cosa che hanno fatto è stata di togliergli il libretto. Dice Ibrahim: «Anche psicologicamente, in queste condizioni, ti senti precario. Non sai mai quel che potrai fare, se lo potrai fare, come lo potrai fare. Ogni anno devo rinnovare il permesso di soggiorno e la cittadinanza, che per legge avrebbe dovuto darmi dopo 6 mesi dal mio matrimonio, non è ancora arrivata, benché abbia fatto la domanda da più di due anni. E non capisco perché, se mi daranno la cittadinanza, continuano a chiedermi il permesso di soggiorno».

«Ti racconto un aneddoto – dice Ibrahim – ma è una cosa vera. Quando vai in un ristorante a cercare un lavoro, la prima cosa che ti chiedono non è “tu che cosa sai fare”, ma “da dove vieni”. Se dici “sono egiziano” ti rispondono “mi dispiace, la cucina è al completo”».

Ma come lo cercate il lavoro, attraverso quali canali? E come sono i rapporti di lavoro dentro ai ristoranti? «Porta a porta. -risponde Ibrahim – Sappiano che nei ristoranti cercano egiziani perché dicono che siamo disposti a fare orari assurdi, lavori pesanti, ad esserci quando gli altri vogliono essere in festa. Perché ti prendono come aiuto di cucina e ti fanno fare di tutto un po’. I rapporti comunque sono buoni, tanto con i padroni che con i lavoratori italiani. Con i primi qualche screzio può nascere solo quando si parla di soldi, quando qualcuno di noi chiede una paga sindacale, uguale a quella degli altri lavoratori. Ma comunque anche qui c’è una specie di tacita intesa. L’egiziano che va a lavorare in un ristorante sa qual è il salario che gli verrà offerto, perché ha già lavorato in un altro ristorante. E il padrone del ristorante sa quanto offrirti perché ha già avuto altri lavoratori egiziani. Tutto bene con gli altri camerieri, cuochi, baristi. In genere decidono di cambiarti nome. Non riescono proprio a pronunciare quello vero e allora ti ribattezzano con nomi italiani. C’è più ostilità verso i lavoratori del sud d’Italia che verso di noi».

Poi aggiunge: «Io vorrei dire una cosa sulle condizioni lavorative di tutti gli stranieri, non solo degli egiziani. Qualche volta ho sentito dire che rubano lavoro. Non è vero perché fanno lavori che in genere gli italiani non vogliono fare. Ma se l’Italia non ha bisogno di questi lavoratori stranieri, li mandi via. Se però ne ha bisogno, offra loro condizioni di parità».

Verso i sindacati – secondo Ibrahim – i lavoratori stranieri provano diffidenza. «Finora non hanno fatto molto. – dice – Non hanno mezzi per fare qualcosa per chi non è pienamente in regola. Si limitano a farti il conteggio della busta paga quando hai fatto ore in più».

Una storia difficile quella di Mahmoud Ibrahim che fa venire alla mente quella di Marcovaldo di Italo Calvino. Lui Ibrahim, ha tradotto in arabo il libro dello scrittore italiano per la radio del Cairo. E vuole proseguire su questa strada: è convinto che sia quella su cui può avvenire una maggiore integrazione tra i due popoli.

l’Unità, 19 luglio 1985

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