Stranieri 4/4: la scuola
E nella scuola non c’è posto per i clandestini
Guardano tutto il giorno i bambini degli altri. E i loro? Sono tante le domestiche eritree, capoverdiane, filippine che, avendo con sé dei figli, non possono tenerli nella casa dove vivono. Il contratto di lavoro parla di loro e basta, i figli non c’entrano.
Così molte sono costrette a rivolgersi ad istituti religiosi o a collegi privati dove poter far stare i loro figli non solo nelle ore di scuola, ma anche nell’altra fetta della giornata, proprio quando loro sono costrette a stare dietro ai figli dei datori di lavoro.
I costi per questo servizio sono alti, spesso più alti di quanto guadagna una colf che sgobba tutto il giorno. Lo stipendio così vola via, non resta nulla da mettere da parte per poter tornare un giorno da dove si è venuti con qualcosa in tasca.
Il problema è ancor più complicato per i figli dei lavoratori clandestini. Loro ufficialmente non esistono, anche se nei fatti tutti sanno che ci sono e che offrono la loro manodopera nei settori più duri del mercato del lavoro. Non esistono quindi neanche i loro figli. E come si fa ad iscrivere a scuola un ragazzino che non esiste, che non ha certificati o permessi che provino il fatto che lui c’è e che come ogni altro bambino ha diritto di andare a scuola?
Il discorso vale anche per l’assistenza sanitaria. Certo, se uno si fa molto male va in un qualsiasi ospedale e qualcosa gli fanno. Poi magari le storie burocratiche vengono fuori dopo, quando uno viene dimesso. Ma i problema sono per l’assistenza ordinaria, quella che non si fa nei pronto soccorso, con l’urgenza, ma con il libretto delle Usl, dove c’è scritto dove vivi, che numero di codice hai.
Per i bambini c’è poi il duplice problema della lingua. Perché hanno bisogno di imparare tanto quella originaria quanto quella del posto in cui momentaneamente vivono. Senza l’una o senza l’altra i loro rapporti con il mondo e la società diventano monchi, si faranno sempre più difficili.
l’Unità, 19 luglio 1985