Stranieri 5/1: i profughi sudamericani

Quando la gente cantava gli Inti Illimani

Aveva 17 anni quando l’università privata a cui si era iscritta in Colombia fu invasa dai militari. Ora ne ha trentadue, lavora in una tipografia e da più di dieci anni sta in Toscana, dove ha vissuto interamente la stagione «felice» della grande solidarietà con i popoli in lotta dell’America latina ed il tramonto amaro di quell’esperienza.

Non fa piacere a nessuno studiare con le divise, gli elmetti e i mitra che stanno dietro l’angolo. E così Claudia Rodas fece le valigie e puntò verso l’Europa. Ma quella fu solo la goccia che fece traboccare il vaso. Non si trattava esattamente di una fuga per motivi politici. «Avevo la possibilità di restare. – dice – Non è stata un’emigrazione forzata. Ma i motivi di insoddisfazione erano molto forti». C’era il grande desiderio di viaggiare, di conoscere un’altra parte del mondo, gente diversa, forse certe radici di una cultura che là in Sudamerica ha seguito strade diverse, pur partendo da uno stesso ceppo.

«Nei paesi dell’America latina – dice Claudia Rodas – c’è la forte sensazione di essere alla periferia di un centro che di volta in volta è l’Europa o gli Stati Uniti. I modelli culturali che arrivano sono quelli. Io però non identificavo il centro con gli Stati Uniti. Gli Usa sono più il modello di chi cerca il benessere, la ricchezza, che poi, il più delle volte non c’è. Io cercavo qualcos’altro».

Racconta di aver sentito «un destino troppo segnato», di essersi sentita in un pezzo di terra «troppo stretto». «Chi allora emigrava dalla Colombia o da altri paesi dell’America latina – aggiunge Claudia Rodas – poteva farlo, aveva i mezzi che glielo consentivano. Si trattava di emigrazione culturale, per ragioni di studio. Chi se ne andava per motivi economici o di crescita sociale sceglieva gli Usa. Andava là alla ricerca del frigorifero e della televisione, e magari trovava un mare di miseria».

Le chiedo degli emigrati politici. Li conosce, li ha conosciuti. Erano quelli perseguitati dai regimi fascisti e golpisti. Con loro ha lavorato per buona parte degli anni ‘70 in un’organizzazione di solidarietà con l’America latina. C’erano tanti cileni, sfuggiti alle grinfie di Pinochet. E poi argentini, brasiliani, uruguayani, gente scappata in massa per evitare torture e persecuzioni. «Quell’esperienza – racconta Claudia Rodas – cambiò molto i rapporti tra i latino americani. Ci portò a scoprire le radici comuni di un mondo al di là delle differenze nazionali che pur esistono. C’è stato allora un grosso scambio di esperienze, di contatti che ha coinvolto anche i democratici italiani».

E quando è finita quell’esperienza?

«Con il delitto Moro», risponde Claudia Rodas. «Parlare di lotta armata voleva dire stare con i terroristi, anche se si parlava di due situazioni molto diverse». In quel periodo molti militanti di sinistra fuggiti dal sudamerica subirono perquisizioni e controlli, sospettati di avere contatti con ambienti terroristici.

«Ma a sfaldare quell’organizzazione – aggiunge Claudia Rodas – furono anche altri problemi. Le famiglie dei profughi cileni si sono trovate con enormi difficoltà pratiche, con grossi problemi di disadattamento da questa società che cominciava ad affievolire la solidarietà nei loro confronti. Tanti se ne sono andati».

E di quell’esperienza che cosa è rimasto?

«Il movimento di solidarietà con il Nicaragua o con il Salvador ha avuto caratteristiche molto diverse dal movimento che c’è stato negli anni ‘70. Soprattutto non ha più avuto quell’organizzazione di massa che c’era prima. E così hanno cominciato a farsi risentire le divisioni politiche fra le varie organizzazioni dei vari paesi. Non c’erano più i latino americani, ma i militanti di questa o quella organizzazione politica. Si è persa quell’identità comune che prima invece era stata così forte».

Esiste un’identità di tutti i sudamericani?

«Credo di sì. C’è una lingua che ci unisce, che consente ad un messicano di parlare senza difficoltà ad uno che abita nella Terra del fuoco. E poi c’è una storia simile, un’unità molto maggiore che negli altri continenti. Te lo ricordi Simon Bolivar?».

Una donna emigrata ha dei problemi particolari in quanto «donna emigrata»?

Ha dei problemi particolari in quanto emigrata ed ha dei problemi particolari in quanto donna. I primi sono gli stessi di tutti gli emigrati. I secondi sono gli stessi di tutte le donne. Io almeno l’ho vissuta così. Forse è diverso per una donna di colore alla quale viene attribuita un’identità molto più marcata come donna di colore. E poi dipende dalle condizioni di arrivo. Si va dalla condizione di vera e propria schiavitù di una donna che arriva in Europa al seguito della famiglia presso cui lavora come domestica all’allucinante estremo – ma reale – della tratta delle bianche. Ma se hai l’assistenza, perché studi o hai un lavoro, puoi andare in un consultorio».

E il lavoro?

«Facile non è, ma anche qui dipende dalle condizioni di partenza, dal livello di educazione e dalla classe sociale di provenienza. Certo è che di ostacoli ce ne sono tanti. Io ho vissuto per tanti anni qui, partecipando alla vita sociale come un qualsiasi italiano, ma non potevo avere gli stessi diritti degli altri. Non avevo la residenza e questo voleva dire che non potevo neanche avere la patente, quindi neanche un’auto per andare a lavorare o per conoscere davvero il posto dove vivi. Solo quando mi sono sposata con un italiano ottenendo la cittadinanza tutto è cambiato. Il matrimonio così diventa una fessura che si può utilizzare. Dal punto di vista pratico è una soluzione».

Che ne pensi della società italiana?

«Trovo che sia una società che non esclude particolarmente. Ma le grandi difficoltà che uno ha prima di essere riconosciuto ti portano in una specie di mondo irreale dove non sai se la tua identità è quella del presente, del posto dove vivi oggi, o quella di prima, del mondo da dove vieni».

l’Unità, 21 luglio 1985

One Response to “Stranieri 5/1: i profughi sudamericani”

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