Stranieri 6/2: scuola e università

Scuole, università e campus. Il richiamo della cultura

Chi viene in Italia e ha deciso di imparare l’italiano non ha problemi. Di scuole private che glielo insegnano ce ne sono quante ne vuole. Soprattutto a Firenze. Piccole, grandi, antiche e moderne, con corsi collaterali di tutto un po’, dalla grande cultura rinascimentale alla storia dell’arte, finanche alla cucina. Basta avere un gruzzolo di soldi in tasca.

Quante ce ne sono? A Firenze grosso modo una trentina. Alcune aprono e chiudono i battenti nel giro di poco tempo, giusto una stagione. Altre si sono invece consolidate nel tempo, sono diventate una specie di istituzione famosa in mezzo mondo, con succursali o punti di appoggio oltreoceano e oltralpe.

In linea di massima sono in guerra tra loro e l’una accusa l’altra ora di poca serietà, ora di eccessivo legame all’italiano tradizionale. Volano anche parole pesanti.

La conflittualità evidentemente è aumentata dal fatto che il mercato dei corsi di lingua per stranieri è florido ed ognuno – all’insegna del più perfetto spirito di concorrenza – cerca di ritagliarsi spazi maggiori, di strappare studenti, di accaparrarsi iscritti. Le mancanze di legislazione nel settore, che di fatto consentono a chiunque lo voglia di aprire una scuola, ingigantiscono le discordie fra i concorrenti, a scapito naturalmente dei più seri.

Quali stranieri vengono per imparare l’italiano? La risposta ce la dà la signora Mastrelli che dal 1957 dirige l’Eurocentro, scuola per stranieri con splendida sede in piazza Santo Spirito a Firenze.

«L’80 per cento di quelli che frequentano la nostra scuola – dice – sono europei, ed in maggior parte svizzeri e tedeschi. Ma sono in aumento gli australiani, i canadesi, i latino americani e gli statunitensi. In estate poi c’è una discreta affluenza di jugoslavi e di gente dei paesi dell’Est europeo dove c’è un grande amore per l’Italia e per la sua cultura».

La signora Mastrelli sostiene che la motivazione principale di chi si avvicina alla lingua italiana è l’amore proprio per questa lingua e per la cultura di questo paese, anche se il bagaglio culturale degli europei sull’Italia è sensibilmente diminuito negli ultimi anni.

«La scuola – dice – non è peggiorata solo in Italia. Anche oltralpe gli standard culturali sono più bassi». Il discorso è diverso per australiani, canadesi e sudamericani. «Molti di loro – aggiunge la direttrice dell’Eurocentro – hanno legami di antica parentela con l’Italia, vengono a riscoprire la lingua che parlavano i loro nonni e che ancora si parla in vaste zone di quei paesi dove c’è una forte comunità italiana». Pochi, a detta della signora Mastrelli, quelli che imparano l’italiano per necessità di lavoro. «Per lo più – dice – si tratta di professori universitari oppure di cantanti». Merito dei libretti d’opera del Da Ponte.

Di diverso avviso è il professor Carlo de Montemayor che dirige uno dei 400 comitati della società Dante Alighieri sparsi in tutto il mondo: quello neonato con sede in via Gino Capponi a Firenze. «Nelle nostre sedi di Montreal e Toronto in Canada – dice de Montemayor – l’italiano è richiesto per le assunzioni in alcuni ambienti di lavoro». Ci fornisce anche una cifra dalla quale si può capire quanti stranieri frequentano questi corsi: «Nella nostra sede di Roma ogni anno registriamo 5.000 presenze».

Accanto alle scuole per stranieri ci sono le scuole degli stranieri. Al consolato americano di Firenze parlano con fierezza delle tante sedi distaccate di università statunitensi: Harvard, Stanford, Siracuse, santuari della storia dell’arte dove ogni anno passano parecchie centinaia di studenti.

E poi ci sono anche i tre atenei toscani a gonfiare le fila degli studenti stranieri in Toscana. Qui accanto pubblichiamo una tabella degli iscritti all’Università di Firenze nell’anno accademico 83-84. A quei 1.561 vanno aggiunti i 564 dell’ateneo pisano e i 322 di Siena. Naturalmente la presenza nelle università è molto diversa da quella nelle scuole per stranieri. Grecia e Iran fanno la parte dei leoni. Forte anche la presenza di tedeschi, soprattutto nelle facoltà di medicina, dal momento che in Germania la professione di medico è a numero chiuso fin dall’inizio. Chi vuol fare quel mestiere e non fa parte dei pochi ammessi ci prova venendo qui per poi tornarsene a casa con la laurea in tasca. Qualcuno, poi, resta.

l’Unità, 25 luglio 1985

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