Una visita al MAST

Jakob Tuggenner, "Untitled"

Maurizio Marinelli preso da Facebook

Sono un privilegiato, perché il pur rapido giro che mercoledì scorso ho fatto alla Fondazione MAST di Bologna (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia) – significativamente ospitata in via Speranza –, visitando la mostra dedicata al fotografo svizzero Jakob Tuggener (1904-1988), ho potuto compierlo avendo per Virgilio – benché questo, in realtà, sia il mio terzo nome di battesimo – il mio amico, editore, compagno di ferrate, slittini, cocktail Martini, conversazioni sterminate e senza paletti, Maurizio Marinelli, allievo di Umberto Eco, “artista visto da tergo” e tanto altro ancora, che da moltissimi anni ha messo a disposizione di una delle più importanti imprese bolognesi, specializzata credo nei macchinari per il packaging e, per quella via, nel vasto universo dell’automazione, le sue poliedriche, avveniristiche, scoppiettanti, solide competenze nel campo della comunicazione, della tecnologia, della grafica e di tutto quello che dovrei aggiungere se non rendessi troppo lungo e perciò illeggibile questo periodo giunto ormai alla tredicesima riga di una cartella scritta in Word.

Maurizio mi ha rivelato non solo come Tuggener, in anni buissimi per i paesi di lingua germanica, abbia magistralmente immortalato sulla pellicola (o la lastra?) da un lato le rughe e i solchi e la fatica impressa sul volto di operai ed operaie, i macchinari che stanno in fabbrica, il fumo che s’innalza dalle ciminiere, le attrezzature e i prodotti usciti dalle catene di montaggio, i capannoni e la vita in officina – una parola, questa, che con Maurizio condivido quasi segretamente insieme a pochi altri privilegiati, forse perché entrambi abbiamo iniziato a lavorare nei cupi e rumorosi spazi di una tipografia, frequentandole poi per il resto della vita con il medesimo ossequioso rispetto per chi lì vi lavora e sa un’arte che da sola vale ammirazione e quasi estasi –; e dall’altro lato quelle spensierate atmosfere da “sera del dì di festa” che Joseph Roth straordinariamente ha descritto, per esempio, nella Kapuzinergruft, la cripta dei Cappuccini, facendo pronunciare al giovane tenente Trotta il tetro monito «Sopra i bicchieri dai quali spavaldamente bevevamo, la morte invisibile incrociava già le sue mani ossute», che preannuncia la catastrofe della guerra ’15-’18, ma anche quella dell’Anschluss e di Dollfuss poi, scena analoga a quella che tutti quanti abbiamo come spiato dal buco della serratura vedendo Leonardo Di Caprio e Kate Winslet in attesa dello schianto con l’iceberg che nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912 fece affondare il transatlantico britannico Titanic e con lui le illusioni di un secolo che si era appena chiuso sbandierando l’idea di un inarrestabile progresso del quale ancora oggi faremmo bene a definire cosa in realtà esso sia. È infatti ritratta negli scatti di Jakob Tuggener la dolce vita svizzera mentre tutt’intorno infuria la peste e l’orrore, negli anni ovvero 1934-1950, vista non solo nelle scollature delle signore, nei papillon, nelle pellicce, nelle sigarette prolungate dai bocchini, nei secchielli del ghiaccio, ma anche nella banalità quotidiana di chi quelle bevande serviva, compilava il conto, ritirava la mancia, shakerava ben bene o strusciava con l’archetto le corde di una viola per il piacere degli astanti. La spensieratezza, insomma, vista anche con gli occhi di chi, lavorando, la rendeva possibile o, quanto meno – si noti l’aggettivo che sto per usare – “sperabile”.

Già, perché il MAST di Bologna, e chi s’è messo in testa di realizzarlo e farlo funzionare, s’è piccato di far conoscere la fotografia industriale e, per suo tramite, l’importanza e la centralità di questa parola – industriale – un tempo cemento dell’economia e del rapporto tra padroni e proletari finché non è prevalsa la vacuità della finanza, che è il cuore di quello che lì intorno si produce con ottimi risultati da un punto di vista degli utili, della distribuzione del reddito, del contributo alla crescita sociale e civile e alla ricchezza di un quartiere o di una città o, come recitava il titolo del capisaldo del liberismo settecentesco, la ricchezza delle nazioni.

Il MAST infatti svela come nella manualità degli operai – la stessa del Faussone del mio amato Primo Levi – spesso si nasconda la perizia da cui può derivare la scoperta talvolta geniale che perpetua le sorprendenti estrosità della rivoluzione industriale, e mostra come un solido meccanismo di pulegge, bulloni, dadi possa creare profitto, benessere e tempo residuo da spendere leggendo o facendo palestra o guardando i bambini che sono ospitati all’asilo, secondo un progetto affatto balzano, forse solo troppo solitario e precursore, sperimentato a Ivrea dal re delle macchine da scrivere su cui anch’io ho fatto la gavetta.

Perciò parlando da buoni vecchi amici con passioni comuni e speranze condivise, frustrate, rinutrite e perfezionate, a Maurizio ho rammentato il titolo di un libro che merita di essere riconsiderato nella sua forza risolutrice del caos entro il quale ancora annaspiamo con un uno per cento della popolazione che detiene da solo il 51% della ricchezza a disposizione dell’intera umanità, con il rimanente 91% che, stratificato in classi nullatenenti o appena benestanti, deve spartirsi la percentuale delle minoranze in parlamento, a segno che quella che noi chiamiamo democrazia, per quanto sia la migliore delle forme di governo finora conosciute, è un obbrobrio da riformare da capo a fondo, altro che restyling della Costituzione e delle Camere.

Trentin, Da sfruttati a produttori

Quel libro è Da sfruttati a produttori, pubblicato nel 1977, quando Lama fu cacciato dall’Università, da Bruno Trentin, all’epoca segretario generale della Fiom e della Flm, rispettivamente il sindacato dei metalmeccanici della Cgil e il cartello che riuniva le tute blu comuniste e quelle cattoliche della Cisl e laico-socialiste della Uil. E sono contento di aver fatto sì che sul Kindle di Maurizio possa comparire anche questo testo basilare di una rifondazione della politica un po’ più sensata di quella in circolazione.

Io invito chi ne abbia voglia ad andare a vedere il MAST. Se si imparasse quella cultura industriale – operaia o imprenditrice – che è cultura dell’ingegno, del buon senso, della operabilità, della riuscita, del “lavoro fatto e fatto bene” e del rispetto, sono convinto che le cose, come nelle vecchie utopie, andrebbero meglio. Così ho capito in via della Speranza, al numero 42.

Un’ultima cosa. MAST assomiglia tanto a MUST: al dovere e all’oggetto esclusivo.

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