Lo Steinway e il Mac

Maddalena Dalla Torre, appassionatissima amante della musica, mi ha portato alcuni giorni fa – lunedì 29 febbraio per l’esattezza – al teatro della Pergola a sentire un arzillissimo signore – si chiama Pier Narciso Masi e senz’altro il suo nome andrebbe preceduto dal titolo maestro – suonare, da solo o con Matteo Fossi, Mozart, Beethoven e Schumann, facendo scaturire note, accordi e quant’altro fa musica appunto da due Steinway, mitico pianoforte prodotto inizialmente in Germania e poi soprattutto a New York, dove ancora ne sfornano – come mirabilmente raccontò su “La Stampa” diversi anni fa, e mi riprometto di far saltare fuori dal mio archivio quell’articolo, non ricordo più se Gabriele Romagnoli o Andrea Di Robilant – a ritmi da catena di montaggio, il che mostra che anche la fabbrica del capitalismo ha i suoi lati positivi. Due Steinway datati 1890, proveniente da villa Schifanoia a Firenze, e 1923, di proprietà dell’Accademia Chigiana di Siena fino al 1988, restaurati dagli artigiani che lavorano per Gian Castone Checcacci, storico negozio di strumenti musicali presso il quale noleggiai molti anni fa un verticale probabilmente della Sony per vedere se, anche così, la felicità riusciva a spandersi per le stanze di casa.

Che Mozart, Beethoven e Schumann siano strepitosi; che le Sonate n 10 in Do maggiore K330, in re maggiore per due pianoforti K448, n.2 op. 27 quasi Fantasia detta Al chiaro di luna o i Sei studi in forma di canone op. 56 trascritti da Claude Debussy siano altrettanto sublimi o, infine, che questo maestro Masi e il suo ex allievo Fossi, per quanto a me ignoti, abbiano un indubbio talento, non ci sarebbe probabilmente nemmen bisogno di scriverlo, ma è stata una davvero gradevole estatica sorpresa percepire e rendermi conto che i suoni sparsi nella platea, nei palchi e nel loggione di quel teatro, nei pressi del quale ho dormito le notti dei più sereni anni della mia vita, potessero avere una caratteristica così specifica, peculiare, inequivocabilmente diversa da quella che solitamente scaturisce da un qualsiasi pur meraviglioso pianoforte, davvero non era facile da prevedere e capacitarsene lasciando che quella melodia, dopo aver percorso l’aria che ci circonda, avvolge, nutre, vivifica, congiunge, oltrepassasse l’epidermide e, stimolando il timpano, giungesse là dove i credenti ipotizzano il transeunte ed altri uno scrigno di intimità ed interiorità ed ingegno e passione, il quale viene tradotto dai laici e dagli agnostici, declinando al maschile, in animo e non in anima, ghiandola o spiritello che sia, forse quanto gli antichi, e ce ne testimoniava la Yourcenar nelle sue Memorie di Adriano, dicevano “animula vagula blandula”.

Il vecchio Mac

Notando il più marcato pastoso calore dei due strumenti antichi rispetto a pur divini riverberi, dal sapore però maggiormente metallico e scintillante – chissà quali altri davvero appropriati aggettivi potrebbe escogitare l’edotto nella materia – e negli interstizi di un piacere penetrante e possessivo fatto di do, re, mi, fa, sol, la, si, la mente non so esattamente perché è andata ad interrogarsi riguardo cosa potrebbe di analogo avvenire nel passaggio tra un Apple PowerBook 1400 CS/133 del 1996, diciamo così l’equivalente dello Steinway costruito a Long Island nel 1890, e il Mac Book Pro con lo schermo Retina su cui ora sto editando parole che non resisteranno la sfida del tempo e si scioglieranno nel vento come le note che uscirono all’epoca del Titanic o dell’epidemia di Spagnola o di uno dei più inquietanti passaggi della cometa Halley, chissà, magari incendiate da Vladimir Davidovich Ashkenazy.

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