L’8 marzo di Medea
Com’è in uso in Italia dal 1946 per iniziativa delle onorevoli comuniste Teresa Noce, Rita Montagnana e Teresa Mattei, l’8 marzo andrebbe onorato – e spesso l’ho fatto in passato – distribuendo la mimosa, fiorita proprio in questi giorni, alle donne cui questa data è dedicata.
Non solo a mogli, fidanzate, amanti, figlie, madri, ma indistintamente al genere femminile, perché la festa è delle donne, giovani, vecchie, di mezza età, belle e brutte, simpatiche e antipatiche, stupide o intelligenti, buone o cattive, angeli, puttane, lesbiche, anaffettive, colleghe, vicine, commesse, grassotte d’inverno o d’estate magrotte, come cantavano Da Ponte e Mozart, ad ogni modo a quegli individui – a quelle “individue” forse meriterebbe – con due cromosomi sessuali X in ogni cellula, a differenza dei maschi che ne hanno uno X e l’altro Y.
Qualche anno fa, scrivendo in questo blog qualcosa attinente a questa celebrazione, sono giustamente stato corretto da Lucia Zambelli – una delle poche ex colleghe e colleghi da me assunti o valorizzati nel loro inamovibile posto di lavoro nel pubblico impiego regionale, che, alla mia cacciata rottamatoria, si sia presa la briga di dire ohibò! Sorry! – perché avevo erroneamente messo in relazione l’8 marzo con il rogo dell’azienda di camicie Cottons, che si narrava fosse avvenuto a New York nel 1908, confondendolo, probabilmente, con l’incendio della fabbrica Triangle, verificatosi in quella stessa città il 25 marzo 1911, nel quale morirono 146 lavoratori, di cui 123 donne, in gran parte giovani immigrate di origine italiana ed ebraica.
Queste due tragedie in realtà vengono messe in relazione non con la festa delle donne l’8 marzo, ma con quella del lavoro al 1 maggio, la festa delle lavoratrici e dei lavoratori, e a me piacerebbe anche di quelle imprenditrici ed imprenditori che, tra gli obiettivi del loro scommettere ed esporsi, non hanno solo il profitto, ma anche un’equa ed onesta distribuzione del reddito, del salario, del lavoro, ed un reimpiego degli utili, alla Adriano Olivetti, per intendersi.
Ma anche questa attribuzione risulta essere errata perché pare, stando a quanto leggo su Wikipedia, che la celebrazione del 1 maggio abbia origine nei gravi incidenti del 1886 a Chicago, noti come rivolta di Haymarket, quando la polizia uccise molti manifestanti anarchici e socialisti prima all’ingresso della fabbrica di macchine agricole McCormick di Chicago e poi nella piazza che normalmente ospitava il mercato di trattori, trebbiatrici, aratri e sarchiatrici.
E dunque, in realtà, la Giornata internazionale della donna (comunemente detta Festa della donna), celebrata per la prima volta negli Stati Uniti nel 1909, in alcuni paesi europei nel 1911 e in Italia nel 1922, ma in giorni diversi da quello che ricorre oggi, fa riferimento a un episodio che ha a che fare con le donne, ma non solo con loro.
La decisione di fissare all’8 marzo la «Giornata internazionale dell’operaia» fu presa il 14 giugno 1921 a Mosca, una settimana prima dell’apertura del III Congresso dell’Internazionale comunista, in occasione della II Conferenza internazionale delle donne comuniste,
La data scelta fu il 23 febbraio del calendario giuliano, allora in vigore in Russia, corrispondente all’8 marzo di quello gregoriano a cui ancora facciamo riferimento in Occidente, e per la precisione all’8 marzo 1917, quando a San Pietroburgo le donne della capitale imperiale guidarono una grande manifestazione che rivendicava la fine della prima guerra mondiale durante la quale ogni dissenso e protesta erano stati banditi. In quell’occasione le proletarie, decise ad appropriarsi delle conquiste sociali, politiche ed economiche ed a contrastare le discriminazioni e le violenze cui erano sono state oggetto, ebbero la meglio sui fiaccati cosacchi inviati a reprimere la protesta, tanto da incendiare la rivolta che portò, al crollo dello zarismo. Quella data, l’8 marzo 1917, insomma celebra l’inizio della Rivoluzione russa di febbraio a cui farà seguito, 8 mesi dopo, la Rivoluzione d’ottobre che portò al potere i bolscevichi.
Questa lunga, ma non inutile, premessa storica, per dire che non celebro quest’anno la festa odierna dispensando al gentil sesso o all’altra metà del cielo mazzetti di intensamente gialla e profumata Acacia dealbata, più nota appunto come Mimosa, i cui fiori sono riuniti in capolini globosi sferici raccolti in racemi da 7 a 10 centimetri, che si sviluppano all’ascella delle foglie, ma facendo qualche riflessione su una donna ed i suoi pensieri e sentimenti e fantasmi, di cui si narra da più di 3 mila anni, certamente dal 431 a. C., quando, per la prima volta, andò in scena ad Atene, nell’ambito delle Grandi Dionisie, una Tetralogia di cui facevano parte il dramma satiresco I mietitori, le tragedie, oggi perdute, Filottete e Ditti, e l’unica che ci è rimasta: Medea.
L’aveva scritta Euripide, si classificò solo terza, dietro un’opera di Sofocle ed una del figlio di Eschilo, Euforione, dei cui titoli non è rimasta traccia.
Medea è una figura della mitologia greca, figlia di Eete, re della Colchide, e di Idia. La Colchide è l’attuale Georgia, paese affascinante dalle alte montagne: il Shkhara è alto 5.204 m. slm. e il Gora Kazbeg a 5.048, il quale è la cima più alta del Gran Caucaso, la catena che per 723 km funge da confine con la Federazione russa; mentre a sud il Caucaso Minore, le cui vette non superano i 3.500 m. fa da confine con la Turchia per 252 km e l’Armenia per 164 km; infine ad ovest il paese è bagnato per 310 km dal Mar Nero.
La Georgia è la patria degli Argonauti, del vello d’oro, di Stalin, Eduard Shevardnadze e di Manana Jorjikia, preziosa persona che da molti anni ormai sta aiutando me, mio fratello Davide e mio cugino Luca, a proteggere ed accudire mia madre.
A seconda delle leggende Medea è in relazioni parentali diverse con Elio, il sole, Apollo, la maga Circe, con cui condivide poteri magici, Perse ed altri.
La Medea di Euripide – che pochi giorni fa ho visto in teatro a Scandicci per la regia di Gabriele Lavia e la superba interpretazione degli attori del Teatro stabile di Napoli – scava in una zona d’ombra delle relazioni umane, lasciando ai margini degli accadimenti gli dèi, i quali non intervengono mai, tanto da spingere, alla fine della vicenda, Giasone, il marito fedifrago di Medea, ad inveire contro di essi, accusandoli, ma senza risposta, di non aver impedito l’esito di questa tragedia, al pari di come numerosi pensatori hanno negato l’esistenza di Dio, o la sua morte, perché Auschwitz è stato possibile e l’Olocausto anche e «elohim elohim, elohim, lamma sabactani», «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», come, secondo il Vangelo di Matteo (27, 46) e quello di Marco (15, 34) Gesù gridò con voce forte dalla croce da cui penzolava ferito nel costato, inchiodato agli arti, intriso di fiele e aceto sulle labbra, deriso e disprezzato dal volgo e dai potenti.
Medea è la donna ferita, tradita, vilipesa, usata e gettata, scordata, ripudiata, svilita, vittima senz’altro, ma anche carnefice, capace di vendetta e di vendetta sugli innocenti, perché per punire il consorte traditore, forse più per sete di prestigio e potere che per desiderio di carne più fresca o per un’improvvisa ed insopprimibile esplosione di sentimenti inattesi ed incontrollabili malgrado la ragione e la volontà, come invero è successo al sottoscritto ad un certo punto della sua vita – che dio mi strafulmini! È andata com’è andata! –; per punire il consorte traditore, dicevo, ben oltre la celebre Lorena Bobbitt, giunge ad uccidere i propri figli, la carne della propria carne, il sangue del proprio sangue, il frutto del proprio seme, e comminare al maschio reo di averla ingannata per un “letto migliore” – quello con Glauce, figlia di Creonte, re di Corinto, dove la coppia Medea e Giasone sono andati a vivere dopo che essa ha aiutato il consorte e gli Argonauti a conquistare il vello d’oro, addirittura abbandonando il padre e tradendo la propria famiglia, pur di seguire il marito, assecondarlo, farlo felice, conquistarlo, persuaderlo a darsi tutto a lei.
Ed è qui che s’innesca la problematicità di questa figura e di ogni nostra contraddizione, dell’esser fatti di luce e d’ombra, e di miseria e nobiltà, di grandezza e desolazione, ed anche la problematicità delle nostre relazioni, la compartecipazione alla responsabilità, l’esecuzione degli ordini imposti dai vertici sostenuta da Eichmann al processo di Gerusalemme ma al tempo stesso il suo esser stato in scienza e coscienza, e nel pieno possesso delle proprie facoltà, capace di intendere e di volere, boia e carnefice, architetto della soluzione finale.
Come Bateson, Watzlawick e gli altri esponenti della scuola di Palo Alto, ci hanno magistralmente spiegato nella loro Pragmatica della comunicazione umana, di cui a un’amante son debitore, la relazione familiare e sociale, al pari dell’energia in un mondo fatto di atomi e materia, non meno dell’inconscio e del ruolo dei sogni, svolge un ruolo determinante di cui dobbiamo con più passione – e modestia – curarci, perciò è chiaro che sul patibolo con Medea per l’esecuzione materiale dei propri figli, a ragion veduta dovrebbe salire anche Giasone che decide di ripudiarla, allontanandola da casa insieme alla prole e a favore di un nuovo connubio.
Ma c’è un ultimo aspetto che va anche considerato, quello tutto “femminile” della pazzia, o dell’isteria, o della sacra epilessia, biasimevoli per il loro eccesso e la loro pericolosità, ma anche cardine di quello che, al maschile invece, chiamiamo amore ed anche in Werther ed altri psicopatici maschi rasenta il folle. Che saremmo senza quel brivido che scuote le nostre menti e ci rende simili a un animale imbizzarrito?
Buona festa donne e uomini che provate ad amarle davvero.
Tags: Gregory Bateson, Paul Watzlawick, Wolfgang Amadeus Mozart
ohibò, sorry….