Quella città scossa

Foto di Federico Pacini

Ho passato parte degli ultimi tre anni – da quando un uomo intelligente e onesto, e non quella banducola di banditi che invano millanta inesigibili crediti, ha gettato un salvagente a cui potermi aggrappare – a persuadere, tra le molte altre cose, cronisti locali, ma soprattutto operatori televisivi di emittenti giunte anche dal lontano Oriente o dalla blasonatissima Cacania, raccontando loro del primato dell’ospedale nelle cui stanze si trovava il mio ufficio: l’essere il più antico nosocomio al mondo ancora in funzione: l’ospedale Santa Maria Nuova di Firenze. Ovvero sia un luogo di ricovero, cura ed assistenza nel quale nemmeno un solo giorno, pare, – guerre, epidemie di peste, alluvioni e cataclismi compresi – s’è smesso di far del welfare dal lontano 1288, quando Folco Portinari, padre della Beatrice amata da Dante, grato del benessere derivante dalla sua prestigiosa e proficua occupazione, si sentì in dovere di sdebitarsi nei confronti del prossimo, dando appunto ospitalità, accoglienza e premura a chi di passaggio – pellegrino o emigrato che fosse – o bisognoso di aiuto, assistenza, sostegno.

Verità contestabile se ancora in funzione fosse l’analoga istituzione senese, ovvero l’ospedale Santa Maria della Scala di Siena , certamente risalente al 29 marzo 1090, giorno a cui data il primo documento che ne menzioni l’esistenza lungo la via Francigena, anche se pare si possa risalire indietro fin forse all’898.

Nella seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso, non prima di aver tentato di rianimare Italo Calvino, lì ricoverato per l’ictus che lo colpì il 6 settembre 1985, ad appena 62 anni, nella sua villa di Roccamare, vicino a Castiglione della Pescaia, sottoponendolo a una lunga operazione al cervello grazie alla quale riprese parzialmente conoscenza per poi aggravarsi e morire il 19 settembre in seguito ad una sopraggiunta emorragia cerebrale.

Ma dismessa quella destinazione sanitaria, il complesso senese – detto della Scala presumibilmente per la sua particolare collocazione dinanzi alla gradinata della cattedrale, ancorché una leggenda attribuisca alla visione di un miracoloso scalone capace di accogliere in paradiso i fanciulli abbandonati, comparsa in sogno alla madre del Beato Sorore, il mitico fondatore medievale dell’ospitale – è ora un prestigioso Beaubourg nostrale derivante dal recupero dell’edificio su progetto dell’architetto Guido Canali, vincitore nel 1992 di un concorso internazionale di restauro.

A quelle stanze che occupano una parte dei 13.000 metri quadrati in pianta aperti al pubblico – con una volumetria che supera i 350.000 metri cubi, entro la quale si trovano inestimabili testimonianze storico-artistiche, tra cui il celebre ciclo del Quattrocento senese così detto del Pellegrinaio – ed in particolare agli spazi sottoposti a una lunga fase di ristrutturazione destinata a recuperare a luogo espositivo non permanente l’intero edificio, lo scorso anno è stato dedicato un volume fotografico edito dalla casa editrice Quinlan, con prefazione di Roberto Maggiori.

A scattare quelle immagini Federico Pacini – nato nella città del Palio l’anno in cui molti di quelli della mia generazione, ed io con loro, ci facevamo puntare addosso la canna delle incaute P38 di Autonomia operaia in cortei troppo agitati e divisi per dare davvero una svolta e una rinascita a questo infausto paese che l’uccisione di Moro e la testarda morte di Berlinguer ci hanno irrimediabilmente precluso – poliedrico fotografo, intellettuale, curioso, ricercatore partito da una tesi in scienze politiche su l’evoluzione della politica nazista nella gestione dei campi di concentramento da Dachau ad Auschwitz, ed orgoglioso difensore dell’ora precisa, le 03:15 AM del 24 ottobre 1977, in cui è venuto al mondo nella città del panforte, dei ricciarelli e di quella che è considerata la più longeva ed antica banca in attività al mondo, il Monte dei Paschi, nato nel 1472 come monte di pietà per dare aiuto alle classi disagiate della popolazione cittadina, nonché fiero rivendicatore dei suoi trascorsi da Dj oltre che erede di una schizofrenia sentimentale che a Catullo fece scrivere Odi et amo, ed al Nostro Purtroppo ti amo, libro che ha ricevuto la Menzione d’onore al Premio Hemingway 2014 e manifesta il comprensibile disagio ambivalente dinanzi a quella città che ospita, nel palazzo sovrastato dalla torre del Mangia, l’allegoria del buono e del cattivo governo del Lorenzetti.

Son foto davvero belle, belle nello squallore che ritraggono, per lo squallore che ritraggono, per l’incuria in procinto di risorgere e riproporsi come un nuovo splendore, per la banalità dell’eccezione e la grandezza dell’insignificante, entrambe non così rare da rinvenire in ciascuno di noi e nelle più recondite pieghe del nostro errabondare in questa terra che chissà quanto ancora potremo preservare.

Dateci un occhio, se ne avete voglia e vi attira il genere, a questi dagherrotipi, a questi scatti in colore che – chissà perché?! – mi inducono a pensare che siano in realtà immagini in bianco e nero, ma forse sono solo io quello a cui si sta offuscando la vista ed affonda la prospettiva in un grigio tipico del travertino, niente a che vedere col rosso terra di Siena di cui è lastricata piazza del Campo e gli edifici che vi si affacciano, contro i cui ostacoli vanno a schiantarsi cavalli scossi e non più trattenuti ai canapi in attesa della mossa.

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