Lettera d’amore

Sergio aveva imparato a riconoscere i sentimenti, a dare ad essi il peso che per lungo tempo aveva loro negato, a riconoscerne l’ineluttabilità ma, non di meno, l’imprevedibilità, ed anche il fatto che fosse stolto perseguirli, talvolta addirittura inventarseli o sollecitarli per bisogno, convinzione o smarrimento.

Per ciò viveva quella sua stagione – non priva di affetti, emozioni, generosità e quieta capacità di chiedere all’occorrenza – senza confonderla né con un inaridimento del proprio animo, né con una desolazione per sconfigger la quale occorresse affrettarsi a far battere il cuore, a perdere la testa, a sbilanciarsi oltre il proprio consuetudinario comportamento, come del resto in passato gli era accaduto.

Coltivava relazioni anche amorose, o quanto meno sessuali, ma non prive di delicatezze, attenzioni, coinvolgimenti, attenzione, impegno ad ascoltare e aver qualcosa di sensato da dire, che andasse al di là della ripetizione di frasi già fatte buone per tutte le occasioni.

Ci metteva insomma del suo, ed anzi si sentiva come se per queste relazioni, con maggior o minor forza, meritasse di spendersi, di proporsi per quel che si è anziché, com’è più proficuo, acciocché quel rapporto prima si instauri e poi proceda.

Ciò nonostante aveva in qualche maniera preso atto che nel presente era assente quella travolgente folata provata in gioventù, poi costantemente durante il suo tormentato e fallimentare matrimonio, che pur tuttavia continuava a considerare l’apice della felicità raggiunto nella sua vita, ed infine dinanzi ad una donna che l’aveva incantato – per la quale si era risolto di metter fine alla propria esperienza coniugale e a quel rispettabilissimo desiderio di trascorrere la propria vecchiaia a fianco della persona che si è scelto di avere accanto – ed era poi scomparsa con la stessa celerità con cui aveva fatto breccia nel suo animo.

Inutile farsene un cruccio, pensava, e coltivava – quanto più proficuamente per il proprio benessere, e con l’auspicio che altrettanto fosse per chi lo incrociava – qualunque relazione gli risultasse meritevole di essere vissuta, fintanto che appunto non avesse prevalso qualcosa di dannoso o nocivo, per uno o per entrambi i partecipanti al gioco.

Un giorno, tuttavia, mise a fuoco che gli occhi incantati con cui quotidianamente guardava il volto di una delle ragazze che ogni giorno gli servivano il caffè nel bar di fronte a dove lavorava non erano gli stessi con cui ad ogni muover di chiome allungava l’occhio o torceva la testa, gesti riconoscibili e certamente irritanti, i quali tuttavia sentiva appartenessero alla propria indole al pari degli starnuti che emetteva ogni qual volta c’era una pur modesta variazione sensibile della temperatura, o l’istintivo gesto di proteggersi salendo su un autobus per il timore di essere calpestato o anche solo urtato ai piedi, dove due unghie ormai cronicamente incarnite lo esponevano a un sovrappiù di cautela ed attenzione.

Sorseggiando la sua calda bevanda mattutina, realizzò che c’era assai poco di erotico e, per così dire, peccaminoso in quella sorta di suo “riflesso condizionato” e che le sue pupille raramente si abbassavano al di sotto dell’altezza del collo, per scrutare la forma dei seni o le natiche della ragazza la quale, certamente, aveva almeno la metà della sua età, e – quantunque sapesse per rara esperienza personale, ma soprattutto per capacità di osservazione ed ascolto di quanto avveniva regolarmente intorno a lui, ovvero sia non fossero così insolite relazioni con una tal differenza d’anni, né del resto fosse vittima di pregiudizi morali che tendono ad impedire un siffatto genere di connubio, purché si sia da ambo le parti oltrepassata la maggior età che è quella cui si attribuisce il raggiungimento della ragione – percepiva come innaturale, nel caso specifico, una più approfondita intesa, o, per dirlo più esplicitamente, un incontro basato essenzialmente su un’intesa sessuale.

Il fatto era che non in quel senso, o quanto meno non nella sostanza e nel principio in tal senso, avvertiva la caratteristica della sua attrazione, o, più esattamente ancora, l’incapacità di distogliere gli occhi dal volto della giovane donna, osservando la quale non poteva nemmen dire che gli piacesse, che integralmente rispondesse ai suoi canoni di bellezza, quelli a cui, senza troppi scrupoli o rimuginamenti, non esitava ad abbandonarsi, ed anzi, una volta riconosciuti, escogitava qualcosa che quanto meno lo aiutasse a raggiungere il suo scopo.

Quell’incantamento gli risuonava come qualcosa di diverso e, senza neppur poterlo raffrontare con quanto di più trascinante gli era successo di provare quelle poche volte nel corso della sua vita, percepiva qualcosa che lo scuoteva profondamente, qualcosa che era ogni giorno più difficile da acquietare, benché niente, eccezion fatta appunto per qualche sguardo troppo fisso e incantato, lo inducesse ad un comportamento che potesse risultare sgradevole o offensivo, neppure inquietante.

Decise tuttavia un giorno di non tener più nascosto quel suo stato d’animo, soppesando come non ci fosse nulla di male, né di nocivo, nell’ammettere un proprio sentimento, a patto che lo si facesse con le dovute cautele e precauzioni, ad ogni modo mossi da un intento che fosse sì quello di liberarsi di un peso o di spezzare una costrizione, ma assolutamente non quello di mettere in imbarazzo, o ferire, o anche solo turbare chi di quel sentimento era l’oggetto, o forse la causa, comunque si voglia guardar la faccenda, la persona direttamente interessata.

Prese perciò carta e penna in un’epoca in cui ci si scrive solo inviando messaggi per telefono, frasi di poche parole in marchingegni che simulano una conversazione digitata, stringate comunicazioni affidate all’etere, e buttò giù quanto segue:

Gentilissima C.,

in via del tutto eccezionale, dopo aver cominciato a darci del “tu”, le do del “lei” per evidenziare il rispetto che le porto e il desiderio che questa lettera – che mi permetto di scriverle – non le risulti fastidiosa, se non addirittura molesta, e con la speranza che, un minuto dopo averla letta, lei torni serenamente, senza alcun imbarazzo, senza alcun disturbo, senza alcun retro-pensiero, a darmi del tu, a sorridere come ha sempre fatto, ad accogliere la mia richiesta di caffè, ad offrirmelo con la medesima professionalità, di cui le dovrebbe chiunque dar atto, a ricevere quanto è dovuto per le mie consumazioni, ed insomma che non sia cambiato niente e lei non si senta a disagio o infastidita o arrabbiata. Le scrivo dandole del “lei” e sottolineando, ancora con la determinazione di non turbarla e di non indisporla nei miei confronti con queste poche innocenti righe, per dirle che mi sono innamorato di lei, o più esattamente dei suoi occhi, del suo sguardo, del suo viso, delle espressioni – timide, affaticate, contente, giocose, sempre educate e sorridenti – del suo volto, della sua voce e della sua gentilezza, della sua sobrietà, del tono delle sue parole, rammaricandomi, scusandomi, ma al tempo stesso gioendo, della limitatezza del mio innamoramento, che non si spinge a fantasticare realtà impossibili, irreali, improponibili, forse biasimevoli, suppongo irritanti, a lubrichi pensieri, e tuttavia, pur limitato, è finalmente un innamoramento, forse più esattamente un incantamento, un estatico trasporto, un’innocente emozione, un sincero delicato e non oppressivo sentimento, perciò meritevole di essere manifestato ed espresso, non nascosto o soffocato, solo trattenuto, guidato, rarefatto. Ed era tanto – forse solo abbastanza, ma comunque troppo – che, per quanto sia ricco di sentimenti e desideri verso l’altro sesso, e non mi lamenti affatto delle mie relazioni amichevoli/amorose, non provavo qualcosa che, forse inappropriatamente, mi venga da chiamare “innamoramento”, o altro di simile. Accolga, la prego, la semplice manifestazione delle mie emozioni, che terrò a bada e lascerò nel solo mondo dei pensieri, non dandogli altra forma di parole, gesti, azioni, come una forma di ammirazione, di incanto dinanzi alla bellezza il cui merito va ai suoi genitori ed a quello che lei vi ha aggiunto nel corso dei suoi non molti anni, e appena terminato di leggere torni a dirmi “ciao” quando mi vede con la medesima serenità che ha avuto fin oggi. Grazie

Quand’ebbe terminato apponendovi la propria firma, prese una busta, la chiuse leccando il lembo cosparso del sottile strato di colla, vi scrisse sopra il nome della giovane donna aggiungendovi sotto S.P.M. e si ripromise l’indomani mattina di consegnarla alla diretta interessata dicendole solo, dopo aver preso e pagato il caffè: «Mi scusi, questa è per lei».

«Per me?», chiese lei incredula il giorno successivo. E dopo un attimo di esitazione afferrò il plico, disse grazie e salutò, ma come deglutendo la saliva.

Per qualche giorno Sergio preferì cambiar le sue abitudini e prendere altrove il caffè che solitamente beveva prima di entrare in ufficio, e d’altra parte qualche impegno di lavoro fuori sede lo tenne lontano da quel posto ancora un po’, il che lui pensò sarebbe potuto essere interpretato come una fuga, o forse l’esito di una burla, ma del resto offriva il vantaggio di far digerire la questione, di far sedimentare l’avvenuto.

Al suo rientro, non senza un cenno di inquietudine in petto, fu felice di notare che C. aveva esattamente accolto la sua richiesta e, benché tradisse un barlume di timidezza e forse di imbarazzo, tutto era come prima: il ciao, il tu, la richiesta del caffè, la tazza sul bancone, lo scontrino alla cassa. E lo stesso meraviglioso sguardo che tanto lo aveva incantato.

Sembrava solo che sui volti delle sue colleghe si nascondesse, malcelato, un sorrisetto ironico, di chi la sa lunga. Forse quel suo S.P.M. non era stato compreso. Ma il sentimento, trattenuto ed inespresso, rimase immutato.

P.S. La foto, di Maurizio Marinelli, era stata ipotizzata per la copertina del mio primo libro di racconti Sempre più verso Occidente.

One Response to “Lettera d’amore”

  1. Giusi Raimo scrive:

    Una bellissima, delicata kurzgeschichte…mi è piaciuta molto

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