Lassù a Parcines
Chi sarei stato io, cosa sarei diventato, se non fosse esistito Peter Mitterhofer, un poco conosciuto artigiano di Parcines, piccolo Comune in provincia di Bolzano che conta sì e no 3.500 abitanti, 13 minuti di auto dalla splendida Merano, a 626 metri sul livello del mare, da cui si vedono montagne che mettono voglia di salirle fino in cima?
E infatti in quel posto c’è un bel negozio di scarponi per camminare o fare scalate, dove finirò per andare a comprare un paio di robuste “Scarpa” di cuoio, prodotte ad Asolo, come quelle, introvabili, che ho calzato per una vita finché, qualche anno fa, mi hanno tradito in un trekking tra la Croda Rossa e l’Armentarola col quale avrei concluso l’anello intorno alla conca di Cortina, coronando una delle più belle esperienze da portare con me nella cesta dei ricordi.
Chi sarei stato, dunque, io o cosa sarei diventato, se quel curioso e un po’ bistrattato seguace austroungarico del detto dantesco «Provando e riprovando», adottato nel 1657 dall’Accademia del Cimento a proprio motto, non avesse messo insieme nel 1864 pezzi di legno e pochi altri materiali che costituirono la prima rudimentale e un po’ farraginosa Schreibmaschinen, la macchina da scrivere, allora non ancora facilmente trasportabile, al punto di doverla corredare di una gabbia posta su una carriola per poterla muovere.
Fu infatti Peter Mitterhofer il primo che s’ingegno di metter su qualcosa che consentisse di fare quello che si dice avessero inventato gli Ittiti o i Babilonesi, qualcosa come quasi 6.000 anni fa, ma in meno tempo, con più precisione, con maggior facilità di lettura e, di lì a poco, in un numero di copie superiore all’unico originale.
Tuttavia, come nel caso del telefono, la cui invenzione viene ancora contesa fra l’americano Bell e l’italiano, Meucci, anche per la macchina da scrivere il nome di Mitterhofer vien contrapposto a quello dell’americano Christopher Latham Sholes, cimentatosi anch’esso nella realizzazione di un marchingegno costituito da una tastiera, un nastro inchiostrato ed un rullo scorrevole, o qualcosa di simile, il quale però mise a punto la sua creatura solo dieci anni dopo, nel 1874.
Senza Mitterhofer non riesco infatti ad immaginarmi a copiare, ancora liceale, pagine e pagine di libri sui quali stavo studiando per la maturità, battendo sui rigide tasti di una Olivetti Lettera 22 grigia, progettata nel 1950 da Marcello Nizzoli, che era stata di mio padre, e su cui mia madre, dattilografa oltre che stenografa, digitava come un fulmine. Esercizio a cui mi sottoposi con una ostinazione pari a quella attribuita all’Alfieri, del quale si narra si facesse legare alla sedia dinanzi alla scrivania pur di portare a termine le sue opere, analogamente a quanto fece Ulisse costretto al palo della sua nave per non cedere al suadente canto delle Sirene.
E quando poi entrai in redazione mi trovai a scegliere fra una, grigia e squadrata, della ditta di Ivrea e una, invece, panciuta verde e beige, della Olympia, ed optai per quest’ultima, dalla maggior arrendevolezza dei tasti, morbidi alla battuta e in definitiva più rapida, che resi inequivocabilmente mia incollandoci sopra proprio lo stemma dell’Accademia fiorentina che aveva fatto proprio il motto “Provando e riprovando”, per incitarmi a un mestiere che avevo ancora da imparare.
Un’altra Olympia, la portatile Monica – che mi era particolarmente cara e nella mia fantasia beneaugurante (e in effetti lo fu) perché portava il nome della donna che ho amato sopra ogni altra – mi fu prestata dal mio capo, e amico, Gabriele Capelli per sostenere all’Eur l’esame per diventare professionista, un concerto di ticchettii così maestoso, che non avrei più avuto occasione di sentire in vita mia.
Malgrado questo amore giovanile sono stato – insieme ai mei colleghi della redazione di Firenze prima, e dell’intera “l’Unità” poi, preceduti forse da quelli del “Tirreno” – fra i primi a convertirmi ad un computer – un bestione di dimensioni mastodontiche con la tastiera fissata allo schermo all’incirca come oggi avviene per i portatili – dicendo addio, come ho ricordato qui – a quella macchina che, legata con cinghie elastiche al portapacchi di una Honda 500 Four col serbatoio dorato, mi portai dietro per raccontare i roventi giorni di un incendio che distrusse l’Argentario nel 1981, durante il quale ricevetti un curioso apprezzamento da parte di Susanna Agnelli, sindaco di quel Comune, e in seguito ebbi la possibilità di conoscere Sandro Pertini che venne a controllare come fosse andata effettivamente la faccenda.
Una macchina da scrivere, elettrica e mastodontica, fu anche il regalo che, non potendomelo permettere da solo, feci avere appunto alla mia ex moglie che amavo non corrisposto, organizzando una colletta tra amici, affinché, uscita di casa e terminati gli studi, potesse dedicarsi alla compilazione di tesi di laurea per conto terzi, ricavandone di che garantirsi la propria, anche da me, autonomia.
Ma per tornare a Parcines è lì che è stato allestito un museo dedicato a Peter Mitterhofer e alla storia dell’oggetto da egli inventato, museo che ho avuto occasione di visitare durante una recente vacanza a Merano e che consiglio a chiunque di andare a vedere.
Perché dobbiamo prendere atto che non sarei chi sono, non sarei diventato chi son diventato, né Steve Jobs avrebbe partorito il Mac, né Bill Gates avrebbe la fortuna che ha, né la vita di ognuno di voi sarebbe la stessa, se Peter Mitterhofer non avesse abbozzato quegli esperimenti, non avesse giocato con gli strumenti a sua disposizione, non si fosse curato della derisione dei suoi contemporanei che lo credevano pazzo, non avesse con ogni mezzo tentato di convincere la Vienna di Sissi e Cecco Beppe, a scommettere su quel marchingegno.
In quel museo sono esposte decine e decine di macchine da scrivere e la ripetitività dell’oggetto non procura alcuna noia nel visitatore, perché ce n’è d’ogni specie e d’ogni epoca, d’ogni forma e d’ogni luogo, le portatili, quelle d’autore, le più vendute, coi martelletti o con la testina, col rullo o come in un tornio, qualcuna capace addirittura di scrivere le note della Nona sinfonia di Beethoven, e c’è la storia di quest’attività umana di affidare a qualcosa di solido, o adesso di etereo e wifi, quanto gli passa per la testa, vale a dire di trasformare la comunicazione fra un individuo e un altro, o fra egli e l’intera umanità, presente e futura, in qualcosa di più meditato, inoppugnabile, incontestabile, in una parola, nero su bianco.
C’è Enigma, la macchina crittografica utilizzata durante la seconda guerra mondiale per criptare e decifrare i messaggi segreti che avrebbero potuto compromettere l’esito del conflitto, sulla quale è fiorita una sterminata produzione libraria e cinematografica. Vale a dire c’è anche l’ammissione che quel nero su bianco può anche esser reso grigio o del tutto incolore, ovvero sia nelle lettere e nelle parole e nelle frasi possiamo nascondere trucchi e trabocchetti, manipolare e mentire, confonder le acque o lo stesso linguaggio come si narra avvenne a Babele.
E c’è, emozionante a vederla e assolutamente bizzarra nella sua forma, la macchina su cui Friedrich Nietzsche fece parlar Zarathustra e tutto il resto che ebbe a dirci, al di là del bene e del male.
E c’è ancora, encomiabile appello alla memoria, il ricordo e la spiegazione di come la macchina da scrivere ad un certo punto abbia influito sulla condizione femminile, strappando alle case schiere sterminate di segretarie e dattilografe, avviandoci verso il terziario avanzato e una maggior autonomia ed indipendenza di chi prima era costretta solo a fare il bucato, metter qualcosa in tavola e non venir meno, nel talamo, al dovere coniugale, una specie di fammi godere presto anziché prendermi 20 gocce di Valium.
Il Schreibmaschinenmuseum, tre piani di esposizione, è aperto dal 1998 per volontà del Comune di Parcines, al quale danno una mano la Provincia autonoma altoatesina e la Fondazione della locale Cassa di Risparmio, ma a me spiace che la sua esistenza, come quella di chissà quante altre analoghe parimenti meritevoli attrazioni turistiche e opportunità culturali sparse in ogni dove, sia sottaciuta o lasciata all’ostinazione di chi sta in loco, e non compaia in un catalogo che metta in ordine alfabetico o suddiviso per collocazione geografica, le Terme di Caracalla, la Mole Antonelliana, il museo che a Reggio Calabria espone i Bronzi di Riace, la collezione raccolta al Bargello.
Mi piacerebbe insomma che un Mauro Felicori, o lui stesso, ora direttore della Reggia di Caserta che ho conosciuto quando affiancava strettamente il sindaco di Bologna Vitali, potesse metter mano a questo patrimonio sterminato, restituircelo, renderlo fruttifero, sottrarlo alla gretta stupidità di chi dice questo è mio me lo promuovo da solo, affidando a un grafico sempre diverso e sempre più spesso solo bizzarro per apparire migliore, il depliant da consegnare all’ingresso del museo.
Mi piacerebbe inoltre che i responsabili del museo di Parcines esponessero nelle loro sale anche la celebre fotografia di Indro Montanelli seduto su uno scalino con il pastrano indosso e la Lettera 22 sulle ginocchia e proiettassero questa esilarante piece, che a me verrebbe da chiamare “concerto”, di Jerry Lewis:
E infine mi piacerebbe che qualcuno a Parcines si prendesse la briga di scrivere per Wikipedia una voce su Peter Mitterhofer che, ahimè!, è inesistente. Se me la batte a macchina poi gliela trascrivo io al computer e la metto in rete.