Scoprire talenti e memorizzare

Tornando dalla prima vacanza che, dopo molti anni, nel giugno scorso ho felicemente fatto a Merano, mi sono fermato a Bolzano e lì ho visto, con grande piacere, Museion, il Museo di arte moderna e contemporanea della città altoatesina, fondato nel 1985 da privati con il sostegno della locale amministrazione pubblica.

Dal 2008 è ospitato in uno splendido edificio disegnato dagli architetti berlinesi Krüger, Schuberth e Vandreike, al quale si giunge sbucando da stradelline modeste del centro cittadino, oppure, trovandosi circondati dall’erba, attraversando il fiume Talvera su due suggestivi ponti ricurvi, uno per le bici, l’altro per i pedoni, che a me hanno fatto venire in mente il simbolo dell’infinito, quell’8 reclinato su un fianco che si disegna così: ∞.

Da quello spazio antistante il grande cubo bianco e in gran parte fatto di vetro, così come dalle ampie finestre dell’ultimo piano, quello dedicato alle mostre temporanee, si vedono le vette che circondano la città e, per chi come me ama la montagna, scatta immediata la voglia di raggiungerle, di salirvi sulla cima, di passare da un picco all’altro.

Oltre all’edificio principale, Museion dispone di altri due spazi: a pochi metri da esso, la casa atelier, usata come residenza di ospitalità per gli artisti invitati, e il cubo Garutti nel quartiere Don Bosco, un piccolo spazio che non ho potuto vedere, dove ogni tre mesi viene esposta un’opera della collezione «per far sì – come ha scritto chi l’ha progettato – che i cittadini di questo quartiere le possano vedere», aggiungendo che è dedicata a chi, passandoci davanti, «anche per un solo istante» potrà bearsi.

Al piacevole bar con tavolini all’aperto che si trova su un fianco di Museion, un po’ come fa il Sergio di cui narro in Lettera d’amore e in I pensieri di Sergio, ho garbatamente corteggiato, senza alcun atteggiamento molesto e senza alcuna intenzione finalizzata ad un reale approccio, una giovane ragazza molto bella, che, appena appena imbarazzata in un primo momento e decisa comunque a non cedere alle lusinghe di un vecchio, ha apprezzato i complimenti, stando al gioco e divertendosi dell’insolita situazione, certamente assai diversa dai numerosi abbordi a cui con molta probabilità è avvezza.

Presentandomi alla reception con il tesserino da giornalista, sono stato accolto con squisita cortesia da Barbara Riva, che mi ha introdotto al museo e con la quale, terminata la visita, ho avuto un simpatico e credo proficuo colloquio.

Uno degli aspetti molto positivi del museo è che gli spazi consentono variegate vedute delle opere: da vicino, da lontano, anche dall’alto dalle scale che congiungono un piano all’altro. Sono prevalentemente saloni unici assai spaziosi, dove è difficile accalcarsi come purtroppo spesso avviene in una mostra, quantunque, purtroppo, quando ho visitato io Museion, non fossero molte le persone che ho incrociato.

L’altro aspetto assai piacevole è che, fatta salva qualche eccezione segnalata e comunque suggerita dai custodi, è possibile fotografare le opere esposte, ma, fatto ancor più apprezzabile di come Museion è stato organizzato e viene gestito, a fianco di quasi ogni quadro, c’è un cartellino che sembra una didascalia, scritta peraltro un po’ troppo piccola per essere una didascalia.

Infatti, in realtà, è una specie di blocco, dal quale si può staccare con un gesto facile e veloce, la scheda che fornisce le principali informazioni su quell’opera, con tanto di foto che viene peraltro associata ad un dipinto del passato col quale ha, a detta del curatore dell’esposizione, una qualche correlazione, più o meno apparente, che sia formale o di esecuzione o di tecnica impiegata o di che so altro.

Davvero un modo intelligente, gentile e istruttivo di aiutare il visitatore, di aiutarlo a ricordare, a portarsi dietro una traccia di quanto ha visto o capito o sentito.

Nell’esposizione, io ignorante d’arte ed ancor più di quella contemporanea, ho visto opere davvero belle, in massima parte apprezzabili, qualcuna invece che davvero butterei nella spazzatura commettendo magari un vero e proprio crimine nonché la dissipazione di una fortuna.

Ma ciò che maggiormente mi ha colpito, e su questo punto tornerò tra poco, è una sorta di impegno alla ricerca, come se il curatore fosse andato a scovare artisti non noti ma degni d’essere presi in considerazione o, quantomeno, probabili promesse su cui almeno scommettere, fornendo comunque loro l’opportunità di essere visti da un pubblico più vasto e in uno spazio autorevole.

Al terzo piano del museo ho visto un’esposizione temporanea – suppongo ancora in corso – che di primo acchito mi è risultata insignificante, brutta, presuntuosa. Una gentilissima custode tuttavia mi ha avvicinato chiedendomi se volessi delle spiegazioni e, oltre che prestarsi a farmi una fotografia in loco, con capacità di linguaggio, sintesi e una certa passione, mi ha guidato nei meandri delle riflessioni di Korakrit Arunanondchai, un giovanissimo artista thailandese (è nato a Bangkok nel 1986, ma vive a New York) che principalmente stropiccia, strappa, sbruciacchia jeans e giubbotti in denim, mescolandoli ad ogni altro tipo di materiale, moderno, antico, naturale, sofisticato, e poi dissemina cuscini ed è anche dedito alla produzione di video.

Il cuore delle elucubrazioni visive di Korakrit Arunanondchai è la memoria, il fatto che le giovani generazioni la affidino a sempre più mastodontici pozzi sparsi per il mondo contenenti sempre più giga o tetrabite, spaesati però dinanzi al fatto che così essa possa disperdersi dalla rete all’etere, ovvero in un iperuranio che potrebbe dissolversi o essere all’improvviso inghiottito in un’altra galassia. E mette questa angoscia per l’incombente amnesia a confronto con la registrazione video, fatta quasi alla lenta moviola, dei gesti dei suoi due nonni, immersi, per quanto nel benessere di una famiglia facoltosa, nella vegetazione arcaica, quasi primordiale del paese asiatico da cui l’artista proviene, cercando le tracce di quanto gli anziani parenti, entrambi colpiti dall’Alzheimer, preservano o dissipano nei propri cervelli, di quanto conservano e di quanto invece svanisce, risucchiato in un buco nero denso all’inverosimile di energia tanto da perdere luce e brillantezza.

Ho ascoltato con attenzione la precisa lezione della giovane Virgilio, mantenendo il mio disappunto estetico sugli oggetti esposti, ed il mio riserbo riguardo il fatto che un’opera dell’ingegno rivolta ad esser afferrata da chi la fruisce, quantunque forse da un pubblico assai più giovane di quanto sia io, anzi non sia più io, necessiti di una narrazione collaterale, come se si dovessero mettere didascalie o fumetti ad ogni quadro, scultura, incisione. E tuttavia appassionandomi e sentendomi empatico con Korakrit Arunanondchai per l’attenzione al tema dell’oblio e della memoria, che sono tra gli ingredienti principali del romanzo che ho scritto e nessun editore ancora si decide a pubblicare, e temi sui quali ho a lungo riflettuto ed ancora mi inondano di pensieri che hanno il potere di comparire come vogliono e quando vogliono alla veglia del mio cervello.

Avviandomi all’uscita, prima di riprendere il viaggio di ritorno a vacanze finite, ho chiesto qualche informazione ancora sul museo a Barbara Riva che gentilissimamente mi aveva accolto all’arrivo, e riferendole di come mi avesse colpito questo tentativo di ricerca di nuovi artisti, mi sono permesso di chiederle di dare un’occhiata, e semmai suggerire a chi nel museo si occupa di questo, al mio blog, in ispecie alla mia “Collezione privata” – titolo tratto da un celebre libro del nonno della mia ex moglie, il medico scrittore Corrado Tumiati – nella quale ho raccolto cenni ai miei amici che, per professione, diletto o passione, dipingono, o fotografano, o fanno installazioni, una personalissima galleria nella quale ho inserito Maurizio Marinelli, Dario Longo, Loredana Romero, Gianni Pasquini, Gianfranco Dini, Andrea Ruggeri, mia nipote Felicita Recordati, Ewa Bathelier, Giovanni De Gara, Mario Mariotti e ne sto certamente dimenticando altri.

Le ho precisato di non aver assolutamente intenzione di “raccomandare” alcuno, ribadendole che anche tra i “gioielli” nel mio scrigno, ve ne sono di migliori e di peggiori, ma che l’informazione, l’accesso all’ignoto, lo si fa anche così, con il passaparola, con l’invito alla curiosità, con un briciolo di voglia di impicciarsi.

L’ho ringraziata per la cortesia ed al mio rientro le ho inviato in omaggio una copia di Io la salverò, signorina Else. Non so se delle mie bislacche idee ha poi informato Letizia Ragaglia che è la direttrice di Museion, o chi per lei, ma questo in definitiva non ha poi eccessiva importanza: i miei autori preferiti sono nel mio di musei, e lì li custodisco gelosamente.

Invito comunque chiunque si trovi a passare da Bolzano a fermarsi al Museion: ne vale davvero la pena. E, se del caso, porti il mio saluto alla bella ragazza del bar.

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