La lezione di Ötzi
Oltra a visitare a Bolzano – come ho raccontato in Scoprire talenti e memorizzare – il Museion, di ritorno dalla vacanza fatta in giugno a Merano, sono stato anche a vedere il Museo archeologico dell’Alto Adige, dov’è conservata la mummia del Similaun, ovvero quel che resta dell’uomo ritrovato il 19 settembre 1991 ai piedi del ghiacciaio del Similaun su un monte delle Alpi Venoste alto più di 3.000 metri, al confine fra Italia ed Austria.
Resti di un uomo che doveva essere di un metro e sessanta di statura, avrebbe potuto pesare 50 chili (ora ne restano solo 13), avrebbe portato, secondo le nostre attuali misurazioni, il 38 di scarpe, presumibilmente aveva all’incirca 46 anni al momento della morte, intorno alla quale si è sviluppata tutta una letteratura alimentata di misteri, ribaltamenti e colpi di scena.
Certamente era maschio, benché ci fossero state polemiche riguardo al fatto che non c’erano apparentemente tracce dei genitali. Uomo a cui è stato dato il nome di Ötzi, perché il reporter di un giornale viennese, l’Arbeiter-Zeitung, che se non sbaglio significa giornale dei lavoratori, coniò quel nome facendo riferimento all’Ötzal, il luogo con cui in tedesco si chiama la zona del ritrovamento.
Io ricordo bene che fra il 1994 e il 1997 spedii Andrea Guermandi come inviato per l’Unità nazionale a seguire non ricordo più quale cruciale passaggio dell’interminabile vicenda e son certo che come sempre Andrea scrisse un pezzo di grandissima qualità.
Il Museo è bello, soprattutto per dei ragazzi che stanno studiando, ed è infatti molto ben allestito in maniera didascalica, multimediale ed interattiva, in modo da incuriosire su un argomento complesso che va dalle ricerche antropologiche alla ricostruzione della preistoria, dalle metodiche scientifiche per la datazione dei reperti alla criminologia con cui appunto si tenta di comprendere come esattamente avvenne quella morte.
Se ne scrivo non è solo per promuovere un Museo che, a quanto ho potuto sapere, vede crescere di anno in anno le visite, ed insomma, oltre a svolgere un pregevole compito formativo e culturale, fa anche cassa e invoglia chi vi entra a mangiare poi un Brezel con lo speck bevendoci su una birra o ad optare per un gelato che da quelle parti va come il pane.
Ma purtroppo, com’è uso da tempo nella pubblica amministrazione, è un’istituzione che si avvale sempre più di lavoro precario, confermando un antico principio messo in luce dagli economisti prima di Marx, e poi da lui mirabilmente spiegato, che laddove il salario diminuisce è il profitto a crescere, ci raccontino quanto vogliono questa interminabile, e perciò poco credibile, storia della crisi.
Se del Museo archeologico dell’Alto Adige, e di Ötzi, scrivo è, però, perché è quasi sconvolgente sbattere la faccia in maniera tanto evidente e ben spiegata contro il fatto che c’erano uomini, nemmen troppo “primitivi”, addirittura sette mila anni fa, quando siamo abituati a credere che già nel secolo scorso si vivesse poco più che come bruti, al di là di tutti gli imbellettamenti che abbiamo voluto dargli.
Sì perché risalgono al IV secolo avanti Cristo i resti di quello scheletrico individuo, in poco dissimile dalle povere spoglie degli ebrei sterminati nei lager nazisti così come – maledizione! – abbiamo potuto vederli nella coraggiosa testimonianza documentaria di chi andò lì con la cinepresa in spalla, tra cui pare lo stesso Hitchcock.
Si dice sia il reperto più antico di cui disponiamo per studiare, con i sofisticati strumenti che nel frattempo abbiamo messo a punto, tanto un corpo umano relativamente ben conservato, non solo ossa che possono essere anche molto più antiche, quanto gli indumenti e gli oggetti di cui si serviva.
E l’impressione che io ho avuto non è solo quella della “prossimità” di Ötzi con noi, il suo esserci non eccessivamente dissimile, ma anche l’inverso, cioè, per quanto appunto si sia dato fiato al progresso, alla civiltà, all’inventiva, l’essere rimasti selvaggi, selvatici, barbari, triviali, istintivi, primordiali, anche noi con la faretra sulle spalle, i denti cariati, qualcosa che ci agghindi e ci ripari dal freddo, le stoviglie con cui preparare i nostri pasti, qualche parassita attaccato alla pelle o, peggio, alle nostre qualità sociali ed interiori.
Di più: mi ha colpito la ferocia della violenza che viene perpetrata in quel giallo scritto, nei fatti, molto, molto, molto prima che venissero partoriti Poirot, Maigret o Miss. Murple.
Ed ancora che anche in quell’epoca tanto lontana si migrasse, vi fossero cioè immigrati ed emigranti, in ogni caso che ci si trovasse, dopo aver a lungo camminato, in un territorio che qualcuno riteneva proprio o in ogni caso non voleva ospitasse altri. Che c’è di diverso al largo delle nostre coste, su quei maledetti barconi per salire sui quali bisogna spendere molto più di quanto si paga un biglietto low-cost?
Ma sono anche certo che alla capacità di Ötzi di presentire l’arrivo della tempesta, di fiutare nei boschi, di arrangiarsi con il poco che si ha nella bisaccia, di ingegnarsi come ricucirsi con quel che capita la pelle d’animale usata per proteggersi dal freddo e strappata da una discesa scoscesa lungo un canalone, di quelli che io amo per sentirmi vivo e con i polmoni pieni d’ossigeno, capaci di vibrare come il vento che mi soffia intorno e l’umanità alla quale appartengo.
Wow!