AI 3.6. Luigi Amaducci: Il morbo di Gilda
Appropriazione indebita
III. La nebulosa più prossima
3.6. Luigi Amaducci: Il morbo di Gilda
Era una donna bellissima. La fine lenta e drammatica di Rita Hayworth richiamò l’attenzione del mondo sulla malattia che aveva reso insopportabile gli ultimi giorni della sua vita: il morbo di Alzheimer. Lo scrittore John Irving raccontò un dramma simile nel suo libro Le regole della casa del sidro. Seicentomila casi solo in Italia e l’incremento va di pari passo con l’invecchiamento della popolazione. Ne abbiamo parlato con il professor Luigi Amaducci, coordinatore del progetto europeo di studio sul morbo.
«Durante il ricovero i suoi gesti mostravano un completo scoordinamento. Era disorientata rispetto al tempo e allo spazio. Col passare del tempo lei affermava di non capire niente, di sentirsi confusa e completamente persa». Alois Alzheimer descriveva così, nel 1906, una donna affetta dal morbo che poi avrebbe preso il suo nome. Era uno dei primi passi nello studio della neurobiologia, ma quello era un periodo felice per le ricerche «fisiologiche», per gli aspetti biologici del cervello umano.
«Poi, verso quell’approccio si è persa fiducia», dice il professor Luigi Amaducci, direttore della clinica di malattie nervose e mentali di Firenze e coordinatore del Gruppo di ricerca della Comunità Europea sulle demenze. La psicologia da un lato, il sociologismo dall’altro hanno tolto spazio allo studio biologico.
«Ora che la neurobiologia è in fase di ripresa, si comincia a riparlare dell’argomento anche perché è stato osservato che la sindrome di Alzheimer è un’epidemia che si sta diffondendo molto con l’invecchiamento della popolazione».
Ci sono dei dati epidemiologi, professor Amaducci?
Stanno cominciando solo ora in Italia gli studi di prevalenza e di valutazione dell’entità del fenomeno. Sono stato per un anno a Bethesda, negli Stati Uniti, e lì ho potuto mettere a punto una metodologia di studio epidemiologico per l’Italia. Abbiamo scelto il metodo dell’epidemiologia analitica, puntando al rapporto tra una casistica controllata e la popolazione normale. L’indagine è senza dubbio la più grande in assoluto svolta finora in campo internazionale, con metodologie riconosciute. In base a questo studio si ipotizza che in Italia ci siano 600 mila casi di persone affette dal morbo di Alzheimer e che aumenteranno del 40% nei prossimi 15-20 anni.
Una vera epidemia…
… un’epidemia silente, com’è stata chiamata. Fino agli anni ’50 è stata una malattia sempre sottovalutata, a parte gli studi all’inizio del secolo con i contributi di Gaetano Perusini e Francesco Bonfiglio. Poi c’è stato il clamore del caso Rita Hayworth e il lavoro dell’associazione fondata da sua figlia. In Inghilterra e in Svezia, dove hanno avuto un fenomeno di invecchiamento della popolazione precedente al nostro, si sono fatti degli studi e si è cercata una risposta in termini di assistenza sociale. Hanno tentato anche negli Usa, al tempo di Kennedy, ma si sono accorti che i costi sociali lievitano a dismisura: il presupposto era che, una volta insorta la malattia, i soggetti potessero sopravvivere per non più di 3 anni. Quando si sono accorti che la malattia durava anche dieci anni hanno dovuto abbandonare.
E così ora, con l’invecchiamento veloce della nostra popolazione, il morbo torna alla ribalta.
Negli Usa hanno investito 60 milioni di dollari per le ricerche in questo campo. Anche la Comunità europea si è mossa. In maniera più sommessa, ma si è mossa. Ha messo in piedi un gruppo di studio sulla demenza senile che attualmente coordino io. E il Cnr ha inserito questo argomento nel progetto finalizzato «invecchiamento». Il progetto dovrebbe partire la prossima estate. In parte è uno studio demografico che coinvolge l’Inps e la Banca d’Italia, ma buona parte è dedicata allo studio della degenerazione del sistema nervoso. Ma per poter eseguire ricerche «in tempo reale» abbiamo dato vita, in collaborazione con una azienda farmacologica, la Fidia, anche a un centro privato, lo Smid, finanziato con fondi pubblici e privati.
A cosa puntano le ricerche attualmente?
A capire il perché, da un punto di vista biologico e molecolare, di questa malattia. Finché i dementi sono stati ricoverati negli ospedali neuropsichiatrici, il neurologo ha dovuto occuparsi poco di questa malattia. Anche per quelle ragioni culturali che dicevo prima, per quel non vedere di buon occhio una corrente medica che aveva avuto tra i suoi ricercatori lo stesso Lombroso, ma che aveva individuato anche le cause biologiche di malattie come la sifilide, la pellagra, la lue. E così le ricerche di oggi sono nuovamente spostate sul fronte della genetica.
E che notizie arrivano da questo fronte?
Be’, senz’altro si è messo a fuoco che il problema della «familiarità» è il più importante. Da un lato, per esempio, si è scoperto che nel mondo esistono poche grandi famiglie che hanno questa malattia. Tra queste ce n’è una italiana, originaria di Lamezia Terme, che è emigrata e si è diffusa in Francia e negli Stati Uniti. Qui la rilevanza dei casi è del 50%, con caratteristiche atipiche. Un ampio studio effettuato un anno fa alla Harvard University di Boston su 4 famiglie, ha messo in luce che la malattia ha analogie con la sindrome di Down, cioè con quell’anomalia del Dna detta comunemente mongolismo, caratterizzata dalla presenza di 3, anziché 2, cromosomi 21. In particolare è stato notato che molti soggetti affetti dalla sindrome di Down, se sopravvivono dopo i 35 anni, sviluppano demenza.
Sarebbe dunque una malattia ereditaria?
No, non ereditaria. Genetica. E molto probabilmente l’anomalia genetica è causata nelle primissime fasi dello sviluppo. È accertato, per esempio, che fra le donne che partoriscono dopo i 40-45 anni, una su 20 dà alla vita un individuo affetto da questa sindrome. Gli studi, allora, non possono che rivolgersi alla condizione materna all’inizio del secolo, al microambiente familiare in cui è maturata la malattia di chi oggi soffre di demenza senile.
Il primo passo, allora, è inevitabilmente uno studio epidemiologico. Sapere chi e quanti sono gli affetti dal morbo.
È per questo che abbiamo richiesto a tutti i primari di neurologia in Italia un’indagine in questo senso.
Per farla, immagino, occorrerà una regola diagnostica. Non c’è il rischio di confondere un arteriosclerosi cerebrale con un morbo di Alzheimer?
L’arteriosclerosi cerebrale è il più diffuso errore diagnostico. In moltissimi casi è in realtà morbo di Alzheimer. L’espressione popolare italiana «sei arteriosclerotico», in altri paesi è stata sostituita dal riferimento ad Alzheimer. Ma non bisogna neanche confondere tutti i disturbi della memoria, tutti i disorientamenti spazio-temporali, tutte le forme di incapacità di provvedere a se stessi con il morbo di Alzheimer. C’è un 10% delle forme demenziali che non sono Alzheimer e sono curabili. La loro origine, magari, è in un ematoma, in un piccolo trauma cranico, in carenze vitaminiche o in un uso eccessivo di psicofarmaci. C’è un’altra sindrome non ben identificata, la dismnesia benigna, che provoca disturbi della memoria. Ma si fermano lì. Nel caso del morbo di Alzheimer, invece, i sintomi declinano inevitabilmente. Se c’è progressività, allora molto probabilmente si tratta di questo. Ma l’anamnesi non basta. Occorrono esami di laboratorio, esami strumentali, ripetuti ogni tre mesi.
Malattia genetica, ma se non sbaglio non si escludono altre ipotesi?
Sì, c’è anche un’ipotesi immunitaria, una virale, una tossica. Né si esclude che possano concorrere più fattori nella genesi della malattia.
E sul fronte della terapia a che punto siamo?
Indietro, molto indietro. Esistono dei farmaci che aiutano nel trattamento, ma che hanno molti effetti collaterali e trattandosi di una malattia cronica, con un decorso molto lungo, gli effetti collaterali devono essere ridotti al minimo. La malattia rappresenta un punto di rottura nell’equilibrio tra degenerazione e rigenerazione del cervello. Il farmaco deve intervenire qui, nella rigenerazione del cervello.
[Lo spettro della demenza], 8 aprile 1988
Luigi Amaducci (Verona 1932 – Firenze 1998) è stato un neurologo di fama mondiale. Laureatosi a Padova, ha proseguito gli studi in neuropatologia alla Harvard Medical School di Belmont nel Massachusetts (Usa), specializzandosi poi a Firenze. Ricercatore per conto di numerosi istituti internazionali, prima di diventare professore ordinario di Neurologia all’Università di Firenze, dove ha anche diretto il dipartimento di Scienze neurologiche e psichiatriche, ha lavorato alla Stanford University in California e alla Sezione Neuroepidemiologica del NINCDS. Dal 1989 ha diretto il Progetto ”Invecchiamento” del CNR. Ha pubblicato numerosi lavori su sclerosi multipla, Alzheimer e demenze.
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