AI 3.5. Pino Pini: I malati sani
Appropriazione indebita
III. La nebulosa più prossima
3.5. Pino Pini: I malati sani
È l’ultimo elogio della pazzia. L’ultimo di una lunga tradizione che, da Freud a Basaglia, ha tentato di spezzare i reticolati del lager fisico e ideologico in cui sono sempre stati tenuti i cosiddetti malati mentali.
A farsi promotore dello «scandalo» un’organizzazione inglese che si chiama «Mind» e che sta lavorando per far curare i «matti» dai «matti».
«Proprio così», racconta lo psichiatra fiorentino Pino Pini, l’unico italiano ad aver partecipato al convegno tenutosi a Brighton nel settembre scorso per iniziativa appunto del «Mind» e dell’«Health Authority of Sussex», per così dire l’Usl della regione che ospita la cittadina britannica.
Dottor Pini, in che cosa consiste quest’esperienza?
In gruppi di pazienti psichiatrici che si pongono come punto di riferimento per altri pazienti psichiatrici.
Che cosa intende per «punto di riferimento»?
Persone a cui rivolgersi per i propri bisogni di persona con gravi problemi. Si va dal bisogno di comprensione o di difesa a quello di un letto, di un tetto, di un lavoro e, perché no, di una tazza di caffè al momento giusto. Non a caso il tema del convegno di Brighton erano i «common concerns», vale a dire le cose in comune fra pazienti psichiatrici, anzi fra esseri umani e altri esseri umani che avevano avuto a che fare con disturbi mentali o, meglio, secondo la dizione più accettata, con stress emozionali. Ma la particolarità è che fra le cose in comune tra questi esseri c’è la stessa organizzazione socio-sanitaria, il come costruire una terapia, una reintegrazione.
Vuol dire che i pazienti psichiatrici dicono la loro sul trattamento, si trasformano in «punto di riferimento» anche istituzionale?
Certo. «Mind» è un’organizzazione finanziata dallo Stato che promuove vie alternative alla psichiatria tradizionale. L’ospedalizzazione del paziente psichiatrico in Gran Bretagna è ancora molto forte, ma molti operatori di «Mind» e lo stesso vicepresidente dell’organizzazione, sono ex pazienti psichiatrici con storie pregresse di malattie tutt’altro che lievi. Al convegno di Brighton hanno partecipato gruppi di pazienti psichiatrici provenienti non solo dall’Inghilterra, ma anche dall’Olanda, dagli Stati Uniti, dal Canada e c’erano figure anche molto colorite, adatte, per così dire, a delle sceneggiature felliniane. Ma anche questi personaggi, per la loro stessa eccezionalità, non facevano che sottolineare il tono estremamente costruttivo e impegnato di tutto il convegno.
Ma in che cosa consisterebbe questo ruolo istituzionale del paziente psichiatrico?
Nella capacità che questi gruppi di pazienti psichiatrici hanno di poter intervenire nella pianificazione, nella gestione e nel controllo dei servizi psichiatrici pubblici di una regione; oppure di potersi esprimere sulla valutazione dei servizi, sulla formazione e l’aggiornamento del personale. Psichiatri compresi, naturalmente. È una prassi questa che va sotto il nome di «self-help».
Al convegno di Brighton partecipavano solo pazienti psichiatrici o anche operatori?
No, gli operatori istituzionalmente definiti c’erano, ma erano in numero ridotto e comunque avevano una voce molto minore. Per lo più si trattava di assistenti sociali, di volontari, qualche psicologo e pochissimi psichiatri. L’impressione, comunque, era che la regia di quell’incontro la tenessero i pazienti o ex-pazienti che siano. E mi sembra giusto così, perché si trattava di dar parola a chi meno ne aveva avuta in passato.
Come mai lei ha deciso di partecipare a quel convegno?
Avevo sentito parlare di «self-help» psichiatrico nel 1985 e l’idea mi aveva incuriosito. Ero alla ricerca, da tempo, di un modo che consentisse di rompere quello che costituisce un cardine dell’assistenza psichiatrica, anche di quella territoriale più avanzata: il rapporto di cronica interdipendenza fra operatori e pazienti. Ma mentre per gli operatori la cosa appariva in qualche modo risolvibile – attraverso gruppi di studio, alleanze fra gli operatori per l’aggiornamento, l’insegnamento – per i pazienti la cosa sembrava molto meno realizzabile.
Perché?
Perché il pregiudizio dell’inguaribilità del paziente psichiatrico, una volta che è stato «toccato» dalla «malattia», è profondamente radicato nella gente e molto spesso proprio negli operatori. Quindi è radicato anche nei pazienti, che si trovano davanti a un destino «prescritto».
Lei non è di questo avviso.
Naturalmente. Ho lavorato per molti anni con un gruppo di pazienti psichiatrici e mi sono reso conto che quelle persone erano in grado di autogestirsi per alcuni aspetti importanti della loro vita di relazione, indipendentemente dalla presenza mia e di altri operatori del servizio. Quando dico «autogestirsi» non intendo solo la capacità di prepararsi dei pasti, ma anche di invitare persone e organizzare situazioni sociali fino all’aiuto nei confronti di altre persone con disturbi psichici. E negli ultimi tempi ho avuto l’impressione che quegli stessi pazienti fossero diventati un supporto per noi operatori.
E questa sua impressione ha avuto delle conferme?
Sì. A un certo punto, un gruppo di giovani operatori ha proposto un modello psicoterapeutico molto rigoroso. Anche in quel caso i pazienti si sono comportati egregiamente. Fino al momento in cui abbiamo scoperto le carte: avevano giocato a fare i bravi pazienti per consentire ai giovani operatori di fare i bravi terapisti!
Che conclusioni ha tirato?
Ho deciso di mandare pazienti a quel gruppo di persone, perché a loro volta divengano persone. Dal mio punto di vista però si trattava di trovare delle conferme, delle prove concrete a quelle evidenze su cui ero pronto a giurare, ma che trovavano molti dissensi ed avversioni nella psichiatria ufficiale. Le conferme sono arrivate proprio dal convegno di Brighton.
Un’ultima domanda, dottor Pini. Come mai il «self-help» si è sviluppato in Gran Bretagna e non è stato accolto nella elaborazione di Basaglia?
Credo che la ragione stia nel fatto che da noi la rivoluzione psichiatrica è stata opera precipua degli psichiatri. L’hanno gestita loro e in molti casi per ottenere maggior potere di quello che avevano. In altri paesi invece il messaggio liberatorio e alternativo che da noi ha trovato sbocco nella legge 180 si è incarnato in movimenti volontari di assistenza ai pazienti psichiatrici che vantano tradizioni centenarie. Il che permette di mettere in second’ordine il modello medico che ancor oggi prevale qui in Italia. E con esso il pregiudizio dell’inguaribilità.
[Elogio della pazzia], 20 novembre 1988
Pino Pini è uno psichiatra che fino al 2015 ha fatto parte del Board of Mental Health Europe, continuando comunque Beyond the Medical Paradigm Task force. È stato tra i promotori dell’Associazione italiana per la salute mentale (AISMe), costituita a Prato nel 1993 nell’ambito della Federazione mondiale per la salute mentale (WFMH) e con l’appoggio di molteplici realtà italiane che avevano partecipato attivamente alle iniziative di self help fin dalla fine degli anni 80.
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