AI 3.3. Mario Barucci: Invecchiare, a piccole dosi

Mario Barucci

Appropriazione indebita

III. La nebulosa più prossima

3.3. Mario Barucci: Invecchiare, a piccole dosi

Avvertenza: invecchiare a piccole dosi. Se il professor Mario Barucci avesse messo a punto un farmaco, anziché scrivere un libro, avrebbe probabilmente chiesto che sulla confezione del medicinale venisse stampato in neretto quell’avviso. Invece, dopo anni di lavoro sul campo – è stato primario degli Ospedali neuropsichiatrici fiorentini – ha voluto cimentarsi con un saggio che non intende presentarsi come un vademecum rivolto all’anziano per campare meglio, piuttosto come uno strumento «non solo per il geriatra, ma per ogni medico: addirittura per il pediatra e per il neuropsichiatra infantile», perché «la preparazione alla vecchiaia deve iniziare dai primi anni di vita».

Il volume va in libreria in questi giorni nella collana con cui la casa editrice torinese Utet va all’assalto di un pubblico diverso dal suo tradizionale, abituato alle grandi opere vendute ratealmente, e per trovare un titolo al volume, ha dovuto coniare una nuova parola, un neologismo che, come spiega l’autore stesso «condensa le tre parole chiave del modello culturale che indico». La parola è «Psicogeragogia» ed assomma i concetti di mente, vecchiaia, educazione, come chiaramente specifica il sottotitolo del libro (Psicogeragogia: mente,vecchiaia, educazione, Utet libreria, Torino 1989).

La parola l’ha coniata lui, ma, precisa subito il professor Barucci, «il concetto di educazione alla vecchiaia nasce nella scuola del gerontologo fiorentino Francesco Maria Antonini negli anni ’70». Un concetto che «ha avuto in seguito ampliamenti e distorsioni: anche per questo ho deciso di scrivere il libro».

Con che obiettivo?

La rivalorizzazione della mente come elemento determinante nella vecchiaia. Vede, la vecchiaia dell’uomo non è la stessa degli animali, perché l’uomo produce tecnologia, etica ed estetica e questi tre concetti hanno ribaltato il problema mente-corpo. Sono temi più filosofici che scientifici, me ne rendo conto, ma con i quali, seppur brevemente, ho dovuto misurarmi. Per molto tempo il cervello è stato visto come strumento determinante del corpo, poi però c’è stata una vera e propria rivoluzione: non più il cervello al servizio del corpo, ma viceversa. Ci si è resi conto che il cervello è in una posizione di privilegio, basta pensare alla sua posizione anatomica, dentro una «cassaforte», o al fatto che riceve venti volte più sangue di un’equivalente altra parte del corpo. E allora anche la vecchiaia la si può vedere con questa lente.

E che cosa si vede?

Che è il cervello a determinarla. Che la vera vecchiaia non è quella del corpo che cambia, ma quella del cervello. Lei pensi a che cos’è un corpo malridotto, ma con un buon cervello, pensi ai grandi vecchi della letteratura o della filosofia e mi dica se ha mai sentito parlare di un grande vecchio dello sport? Il fatto è che finché c’è mente, non c’è vecchiaia.

Allora il problema è mantenere vivo quel cervello, non lasciarlo invecchiare.

Sì, ma non solo. Vede, la gran parte dei disagi del vecchio, sono la conseguenza di errori individuali, ma anche di errori, come dire… culturali, sociali. Si è stratificata una concezione della vecchiaia che non aiuta affatto ad «invecchiare meglio». Il primo problema, allora, è conoscere la vecchiaia in quei suoi aspetti che dicevo prima: capire che cos’è la «vecchiaia cerebrale». E quali sono le malattie che la determinano, prima fra tutte la depressione.

È una cattiva compagna?

Pessima. In genere cominciamo a prepararci alla vecchiaia quando arriviamo a 55 anni. Ma spesso a quel punto è troppo tardi, avremmo dovuto cominciare dall’infanzia, perché è lì che si creano delle immagini nella testa che poi ci portiamo dentro per sempre. È quando siamo bambini che ci insegnano il culto della memoria: i genitori ci lodano perché ricordiamo, la tv ci propina valanghe di quiz dove è premiata la memoria. Accanto al culto della memoria c’è il culto del fisico, della prestanza, della bellezza. Questi valori dureranno poco e varcata la soglia della pensione si riveleranno una carta perdente per la nostra vecchiaia. Noi disponiamo di molte leggi che ci difendono dai danni somatici, ma di nessuna legge che ci difende dai danni psichici.

Il suo è un violento «j’accuse» all’edonismo di questa società. Ma lei intende dire che non si deve coltivare la memoria nei bambini e che si deve dissuaderli dalla pratica sportiva?

No, dico solo che quei valori vanno equilibrati. Dico che bisogna insegnare a compensare i difetti della memoria, non a disprezzare quel difetto, perché è su questa cultura che si insinua la depressione e, quindi, la vecchiaia cerebrale. Dico che dal mito della competizione ne viene un danno per la vecchiaia. Dico che i modelli con cui dovremmo confrontarci non possono essere solo i belli della tv. Del resto le protesi, la tecnologia, hanno cambiato il nostro mondo. Cicerone aveva bisogno di assistenti con una grande memoria. Un avvocato di oggi non userebbe lo stesso parametro nella scelta dei suoi collaboratori. Alessandro o Milziade erano capi fisicamente perfetti, ma la storia più recente ha mostrato che si può essere capo-branco anche seduti su una carrozzella.

Il suo libro non è un manuale per il buon invecchiamento, ma contiene molti suggerimenti per prepararsi alla vecchiaia e ritardarla. Ce ne può indicare qualcuno?

Be’, innanzitutto non bisogna entrare in circoli viziosi. Il più semplice è il deterioramento del corpo, vissuto isolandosi. Cioè aggravando il problema. Oppure la perdita degli oggetti. Molti anziani passano delle ore a cercare gli occhiali o le forbici. È un piccolo deficit che spesso porta all’ansia. Ci si intestardisce nel cercarli, e più tempo ci si mette e più si sta peggio. Eppure sarebbe così semplice comprarsi una volta per tutte cinque paia di occhiali da seminare per la casa. Un’altra cosa molto importante è l’impiego del tempo libero.

Anche a quello, immagino, ci si dovrebbe abituare fin da giovani.

Non c’è dubbio, quanti giovani subiscono passivamente la tv al pari degli anziani? Quanti, se gli si chiede che cosa hanno letto non ricordano il titolo del libro per il poco interesse che vi hanno messo? È solo qualcosa che viene da fuori, di cui non si è protagonisti. Il fatto è che troppo spesso ci viene insegnato di non aver altri interessi al di là dei nostri compiti primari: lo studiare, il lavorare. Anche per questo io ho dei dubbi sulle «vacanze per anziani». Ma nei vecchi il problema dell’impiego del tempo libero porta ad un altro concetto: quello di «sfida accettabile». L’uomo ha bisogno del gioco, del rischio, ma sarebbe sbagliato pensare di correre i 100 metri in dieci secondi, come rassegnarsi a percorrerli in un’ora.

Ciò che lei suggerisce, professor Barucci, è un processo lungo e complesso al pari di una psicanalisi. Lei crede che un anziano, che si è ormai molto strutturato, possa accettare un mutamento di sé stesso così radicale?

È molto difficile. Sicuramente è più facile che il geriatra riesca a rapportarsi con quegli anziani che supercompensano diventando frenetici a sessant’anni che non con quelli depressi. Questo non significa che cure e rimedi siano impossibili. Quello che io ho cercato di dire scrivendo questo libro è però proprio questo: bisogna cominciare prestissimo. Aveva ragione Giovenale: «… dum bibimus, dum serta, unguenta, puellas poscimus, obrepit non intellecta senectus». La vecchiaia s’insinua mentre siamo presi dagli aspetti piacevoli della vita.

[Pedagogia della vecchiaia], 28 novembre 1989

Mario Barucci (1924 – Firenze 2011) è stato, insieme a Francesco Maria Antonini (Firenze, 1920 – 2008), tra i pionieri della geriatria in Italia. Medico, si è specializzato negli aspetti psichiatrici dell’invecchiamento ed è il fondatore della psicogeragogia. Ha lavorato all’ospedale di Careggi.

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