AI 2.12. Mario Innamorati: Good morning, Antartide

Mario Innamorati

Appropriazione indebita

II. La stirpe di Prometeo

2.12. Mario Innamorati:
Good morning, Antartide

«Non è facile che 40 persone riescano a stare su una nave tra i ghiacci dell’Antartide per tre mesi senza darsi noia, riuscendo ad andare d’accordo. Soprattutto se tutti e quaranta hanno diverse esigenze di ricerca. Ci vuole il coraggio di rinunciare alle proprie cose per quelle degli altri». Il professor Mario Innamorati, docente di ecologia vegetale all’Università di Firenze, è rientrato da pochi giorni in Italia. È stato con la spedizione italiana in Antartide, «il punto della terra più lontano dal mondo industrializzato», lo «zero» nella scala dell’inquinamento. Ecco il suo racconto di viaggio.

Siamo partiti a dicembre in aereo da Roma. Eravamo divisi in due gruppi, quelli che avrebbero fatto ricerche a terra e quelli come me il cui compito si doveva svolgere in mare, su una nave. I ricercatori terrestri erano partiti prima e con loro i tecnici e gli operai che dovevano completare la costruzione della base italiana nella baia di Terranova. Dalla Nuova Zelanda avremmo raggiunto l’Antartide con due navi diverse, la «Finpolaris» e la «Polar Queen», su cui ho lavorato io. È stata noleggiata a un armatore tedesco. Una nave di categoria A, con lamiere spesse più di 2 centimetri. Non è un rompighiaccio, ma una nave capace di resistere in quel tipo di mare. Piccola, maneggevole, con due eliche trasversali sullo scafo per potersi districare tra i ghiacci spostandosi anche di fianco. E teneva benissimo il mare.

Dunque in aereo da Roma a Los Angeles, poi Honolulu, e di qui a Lyttelton in Nuova Zelanda. Lì abbiamo dovuto aspettare qualche giorno perché la nave era in ritardo. La «Finpolaris» con i suoi 80 uomini era già partita. Noi abbiamo preso il mare alle 23 del 23 dicembre. Il Natale lo abbiamo fatto in nave. Per fare quel viaggio ci vogliono da 7 ai 10 giorni, a seconda del mare. Noi siamo arrivati nella baia di Terranova, nel mare di Ross, non ricordo più se il 30 o il 31. Tutto tranquillo, dunque. Il Capodanno lo abbiamo festeggiato sulla banchisa: niente di che, una grigliata, qualcosa da bere. Poi per qualche giorno abbiamo dovuto stare lì alla base. C’era da scaricare le navi, da portare gli strumenti nei container con cui è costruita la base. Il mare lo abbiamo ripreso il 5 gennaio e, a parte due o tre approdi vicino alla base, siamo rimasti in mare fino al 16 febbraio, o forse fino al 15 sera. Una delle due volte che abbiamo approdato fu perché dovevamo andare a prendere i pezzi di ricambio per un elicottero che si era guastato. È stato il momento più drammatico della missione. Sulla nostra nave c’era un elicottero. Serviva per i collegamenti con la base. Altri tre stavano a terra. Li avevamo affittati a una ditta neozelandese, con tanto di piloti. Sono stati bravissimi. Quel giorno l’elicottero si alzò da terra per trasportare una scala. Era molto leggera, di alluminio. Troppo leggera. Si è sollevata urtando contro l’elica di posizione dell’elicottero. L’ha distrutta e per un attimo abbiamo temuto che il velivolo precipitasse giù. Ma è intervenuto un altro elicottero. Ha perlustrato la zona, cercando un punto liscio come un biliardo dove poter fare un atterraggio di fortuna. L’elicottero guasto, intanto, si è tenuto inclinato su un fianco per non entrare in rotazione ed è rimasto così fino a che non è stato a pochi metri da terra. Solo a quel punto si è raddrizzato e ce l’ha fatta.

È incredibile come attraccava la «Polar Queen». I marinai portavano la sua prua sopra al ghiaccio e poi tenevano i motori accesi in modo da rimanere costantemente in quella posizione. Gli ultimi giorni questo sistema non poteva più funzionare. Come ci si avvicinava il pack si rompeva. In quei lastroni che finivano in mare abbiamo trovato una risposta ai quesiti della nostra ricerca. Il mio gruppo lavorava allo studio del fitoplancton, la forma di vita vegetale acquatica più semplice. Dovevamo capire la situazione della biomassa fitoplanctonica, determinarne la concentrazione. Mentre si rompevano i ghiacci, in acqua si vedevano come delle mattonelle di una strada romana. Era il ghiaccio che si riformava. Quello vecchio che si staccava era rosso mattone: clorofilla, vita vegetale, pigmento fitoplantonico. Quando li abbiamo analizzati abbiamo visto che il segnale di fluorescenza era elevato. Noi sappiamo che il fitoplancton ha una sola fioritura all’anno e coincide con la primavera-estate. Ha bisogno di nutrimento e di luce. Ed è quella la stagione in cui c’è più luce e può passare attraverso il ghiaccio che si sta rompendo. Ma ci siamo chiesti che cosa avveniva dall’altra parte del continente. Noi facevamo ricerche in un punto. Dovevamo prendere dei campioni d’acqua da analizzare, ma non ci siamo mai allontanati troppo dalla base. Avevamo fatto un reticolo di stazioni per i prelievi: una ogni 5 miglia nautiche sotto costa e più rade man mano che ci si allontanava. Prima di partire avevamo deciso che di giorno avrebbero lavorato i biologi e di notte i geofisici. Si fa per dire notte. Il buio non c’era mai. Ma questa divisione era indispensabile perché ogni gruppo potesse fare le proprie ricerche.

C’erano dodici gruppi ed ognuno era diviso in più settori di ricerca. Studiosi di produzione primaria, di microbiologia marina, esperti di benton, di zooplancton; poi c’era chi studiava l’impatto ambientale, chi le risorse ittiche, chi l’inquinamento oceanico. E ancora il gruppo dell’oceanografia fisica, di idrografia, di geologia e sedimentologia. C’era anche un gruppo di telemedicina. E questi sono solo quelli che stavano sulla «Polar Queen». Ognuno di questi gruppi doveva eseguire diverse operazioni per poter condurre le proprie ricerche. Ci hanno dato un grande aiuto 2 ufficiali e 2 marinai delle navi italiane oceanografiche. Non è facile coordinare tutte le operazioni tecniche per calare in acqua un rilevatore di luce, uno spettroradiometro. L’operazione serve per vedere se in quel determinato punto, dove si è trovato del fitoplancton, arriva luce e quanta ne arriva. Se la nave si muove e fa ombra allo strumento bisogna ricominciare tutto da capo. Ed è tempo sprecato. Non lo si può recuperare, perché poi è il turno dei geologi che devono fare le analisi acustiche del fondo del mare: devono calare in mare uno sparker, uno strumento che fa scoccare delle scintille e registrare l’eco di quella scintilla rinviata dal fondo del mare, per capire quanto è profondo e di che cosa è composto. Intanto gli oceanografi con i loro mareografi controllano l’oscillazione e il livello del mare e con i loro correntometri misurano la direzione e la velocità del movimento dell’acqua. Poi è il turno di quelli che studiano il benton: loro si immergevano o mandavano un piccolo sommergibile telecomandato con telecamera e macchina fotografica. Avevano tute speciali, seguivano regole rigidissime per le immersioni, accompagnati sempre da un medico e da un gruppo di militari incursori della Marina. Per fortuna non c’è mai stato bisogno di usare la camera di decompressione che c’era a bordo. I chimici invece si allontanavano con un battello dalla nave: prendevano campioni di acqua stando con la prua controvento e contromare per non inquinarla loro stessi. Il loro obiettivo è vedere quali residui della nostra società industrializzata sono arrivati fin là. Il gruppo di idrografia ha fatto due carte dei fondali della zona, una a 50mila, l’altra a 100mila: c’erano delle stazioni a terra che mandavano segnali elettromagnetici alla nave per definire esattamente la posizione su un reticolo. Con un ecoscandaglio, poi, controllavano la profondità.

Tutti insieme 24 ore al giorno. Chi non lavorava restava nella cabina a 2 o 3 letti o nella living-room: un videoregistratore con un centinaio di film ci ha fatto compagnia. Due turni per mangiare, alle 7.30, alle 11.30 e alle 17.30. Il tempo ci ha aiutato molto. La temperatura è andata poco sotto lo zero. Era brutto quando c’era il vento di terra. Non tanto perché fosse freddo, ma perché tirava a 40-50 nodi. Per molti giorni è stato bello e il mare era buono. Si è potuto lavorare al massimo. Ipotizzavamo di poter fare il 20% delle ricerche previste, abbiamo fatto il 97%. Altri gruppi hanno superato l’obiettivo. Il 16 siamo tornati alla base. C’è stata la festa di inaugurazione. Siamo rimasti qualche giorno per metterla a posto e sigillarla per l’inverno. Il ritorno è stato difficile. Ma i risultati mi sembrano ottimi.

[L'avventura in Antartide], 8 marzo 1988

Mario Innamorati è nato a Perugia ed è stato stato ordinario di Ecologia vegetale dal 1976 nella facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali dell’Università di Firenze.

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