AI 2.11. Albert Mayr: La rivolta dell’orologio
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2.11. Albert Mayr: La rivolta dell’orologio
Scandisce ininterrottamente la nostra esistenza. Ci assilla, lo guardiamo mille volte con angoscia, eppure al significato che racchiude non facciamo più caso. È «chiacchierato», ma solo perché di questi tempi è uno degli oggetti più alla moda. Dimmi che orologio hai e ti dirò chi sei, ci martella la pubblicità. Ma il tempo, al di là delle lancette, degli orari ferroviari, del timer sul computer, del cartellino in ufficio, che cosa significa per noi? Se l’è chiesto il musicologo Albert Mayr. Docente a Firenze, Montreal e Monaco, è membro della Società internazionale per lo studio del tempo e dell’Associazione per lo studio sociale del tempo. Insieme a studiosi di altre discipline sta facendo una ricerca sulla percezione del tempo finanziata dal Cnr. Lo studio è all’inizio. Ma le ipotesi su cui si regge la ricerca si basano su impressioni già raccolte. Innanzitutto che tutti noi costruiamo o lasciamo costruire nella nostra testa una certa immagine del tempo. Un’immagine che possiamo tradurre in segni grafici, in percezioni musicali, in atteggiamenti psicologici.
Professor Mayr, perché state affrontando questa ricerca?
Ci sono studi che affrontano che cos’è o cosa potrebbe essere il tempo da un lato «alto», scientifico, filosofico, e dall’altro abbondano libri e manuali di «time management» che dovrebbero aiutare anche il singolo cittadino a gestire il tempo in maniera più efficace e redditizia. Ma è invece carente la ricerca su cosa la gente pensa, su come vive e gestisce il tempo, non in base a considerazioni astratte, se vogliamo scientifiche, ma secondo delle strategie che sono spesso molto personali, molto individuali, basate su campi percettivi e di gestione privata spesso mai discusse né comunicate agli altri. L’indagine di cui mi sto occupando con il matematico Eliano Pessa, la psicologa Ivana di Bartolo e i compositori Antonello Colimberti e Gabriele Montagano, vuole essere un piccolo passo per esplorare l’immagine che le persone hanno del tempo. È ancora difficile dire quale sia; c’è una grande varietà nei modi di rappresentare il tempo quotidiano. Per esempio, se chiediamo a qualcuno di rappresentare una giornata, o un anno o un mese, in forma grafica, possono risultare dei tracciati che hanno pochissimo a che vedere con quelli che sono gli ordinamenti spaziali dei nostri calendari e che sono molto diversi tra persone di una stessa cultura, di uno stesso background etnico e geografico. La cosa interessante è che cominciando a rendersi conto, ad esternare le immagini private del tempo, proprie e altrui, spesso inizia una riflessione, un’indagine più approfondita su alcuni aspetti del proprio essere e del proprio fare, che sono collegati al tempo, ma portano naturalmente a riflettere sulle cause che hanno condotto ad una certa rappresentazione del tempo.
Come si forma la nostra immagine del tempo?
Nella civiltà urbana, per quanto pensiamo di vivere il tempo in una maniera razionale, secondo i dettami del tempo oggettivato, imposto da una società complessa, ci sono delle emozioni latenti, spesso represse, collegate ad esperienze apparentemente banali del tempo, a costrizioni, a imposizioni che vengono da diverse parti e che noi abbiamo imparato a non vivere pienamente, a subire e che però rimangono come forme di violenza temporale che abbiamo subito in giovane età e che in età adulta possono lasciare delle tracce che creano conflitti temporali tra persone.
Cosa suscita questo processo di rappresentazione del tempo?
Le reazioni vanno da un estremo all’altro, nelle esperienze che ho avuto fino adesso. Da un lato una chiusura quasi totale verso qualsiasi tentativo di mettere in questione il proprio modo di gestirsi il tempo. Dall’altro le persone che sono più disponibili e che hanno cominciato a vedere con la chiave di un esame temporale, molti aspetti della loro vita, dei loro rapporti personali, sociali, con il lavoro. A trovare cioè dei momenti di sincronizzazione, che non siano violenti, imposti dall’una o dall’altra parte, ma che portino ad una armonia dove non ci siano prevaricazioni temporali.
Diceva che non tutti hanno l’immagine di un calendario tradizionale. Con cosa lo hanno sostituito?
Sì. Non tutti hanno un ciclo annuale. C’è chi ha una forma che può andare in alto e ricadere bruscamente in basso in un momento qualsiasi. Può essere un trapezoide invertito, con l’inverno in alto e l’estate in basso. Oppure una linea zig-zagata che non sembra rappresentare un decorso temporale. O giornate viste come cicli, o come scale che scendono.
Esistono delle rappresentazioni tradizionali del tempo: la storia, intesa come tempo, come svolgimento, è stata disegnata con dei cerchi ricorrenti, come una linea retta in salita o in discesa, o come alti e bassi, cesure, piccole rivoluzioni, cambiamenti repentini.
Sì, esistono delle immagini ufficiali. Risentono inevitabilmente di una scelta filosofica, ideologica di chi per primo le ha formulate e devono all’interno di un certo gruppo di consenso andare bene a tutti. Perciò per quanto distinte tra di loro, sono comunque nel loro campo altamente standardizzate. Ora ci può essere chiaramente un’immagine individuale che pur mantenendo l’idea di un tempo ciclico non traccia cerchi perfettamente tondi. Può esserci un anno ciclico che ha un piccolissimo spazio per tre mesi e gli altri nove mesi sono molto estesi. Se facciamo un paragone con lo spazio, tutti noi veniamo esortati e incoraggiati a sviluppare il nostro immaginario spaziale e cromatico. Per il tempo questo non avviene.
Che significato psicologico, esistenziale assume la rappresentazione del tempo?
Può apparire banale, ma è importante. Non siamo quasi mai in grado di asserire le nostre esigenze temporali in maniera costruttiva. C’è una componente del nostro essere che viene limitata, umiliata, ristretta. I lavoratori per esempio spesso non discutono in maniera più generale del problema, solo indirizzato a scadenze contingenti. Nel mondo del lavoro le iniziative più interessanti per quanto riguarda una gestione più creativa del tempo, finora, sono venute da parte del padronato ed è anche sintomatico che in paesi come la Svizzera, che sicuramente non è un paese di sinistra, ci sono alcune delle esperienze più interessanti di orario flessibile che vengono proprio dal padronato. Da parte dei lavoratori non c’è stato finora una elaborazione progettuale non soltanto per correre ai ripari contro quelli che possono essere gli aspetti negativi dell’organizzazione del tempo proposta dal padrone. Ci vuole anche questo, ma non basta. Io penso ci sia un problema molto grosso che va affrontato, a livello sociale di organizzazione del lavoro, di sviluppare una progettualità da parte dei lavoratori sul tema del tempo. Ma ci vuole una presa di coscienza di quelle che sono le esigenze personali, i conflitti con le imposizioni esterne, il vissuto in un ordinamento temporale che è percepito come esterno come alieno.
Ma col tempo cambia l’immagine del tempo?
Le nostre immagini sono cambiate. In alcuni posti più velocemente e drasticamente, in altri meno. L’Italia per questo è un paese fortunato perché sono rimasti vivi dei ricordi di tempi. È un aspetto parziale ma importante. C’è stata un’attenzione alle tradizioni e alle esigenze anche degli strati non privilegiati, una tensione a ricordare come vivevano i padri. In altre zone non esiste più memoria dell’uso del tempo. Non dobbiamo soffermarci all’immagine che si è cristallizzata nella società industrial-burocratica, un susseguirsi di unità uguali, interscambiabili, negoziabili, vendibili…
… e obbligatorie …
… sì perché non puoi agire se non in questo reticolato di unità temporali inventate da qualcuno, per cui sai che un’ora può valere tanto. Per fare un esempio di come è cambiato, in zone rurali è rimasto più forte l’aspetto qualitativo. Sono più importanti le date, i momenti, quando fare una cosa, non solo quanto tempo dura fare una cosa. E poi essere in sincronia con i cicli ambientali, sincronie nell’ambiente sociale, … un’ora oggi pomeriggio non è la stessa cosa di un’ora domattina. Questo è vero per tutti privatamente, ma abbiamo poche possibilità di affermarlo, di partire da questo vissuto individuale. È cambiato nelle società rurali il microtempo, quello che una volta veniva misurato e definito in termini umani, cioè in termini dei limiti delle capacità motorie dell’uomo. Misurare una distanza in ore di cammino è più umano che dire sono 6 chilometri: tiene conto della salita, della discesa, della qualità del terreno. La spazializzazione invadente ha fatto anche sì che noi pensiamo il tempo in termini spaziali, standardizzati, linee o caselle da giostrare, da vendere o da comprare e non come una dimensione in cui una propria temporalità può incontrare quella di altri esseri viventi o di cicli naturali. Non si tratta di invocare un ritorno a tempi bucolici, ma di ricordarsi che esistevano altre immagini del tempo, altri ritmi di vita collegati a tali immagini e di ampliare il repertorio di possibilità di gestire il tempo. Vorrei fare ancora un paragone con lo spazio: abbiamo una grandissima scelta di spazi, di immagini dello spazio: urbanistici, privati, abitativi. Non c’è nulla di paragonabile per il tempo. Uno non può andare a comprarsi una rivista che parla di orari, gli ultimi orari più belli, da scegliere. Ecco potrebbero nascere degli «arredi temporali» da confrontare con altri, da scegliere, concordare con gli altri in maniera più partecipata, cosciente.
Professor Mayr, lei è un musicologo. Il tempo nella musica, come possibile rappresentazione dell’immagine che si ha del tempo, è cambiato?
Sì, è cambiato. C’è una corrispondenza sorprendente per molti aspetti tra quello che è stato un concetto e un uso del tempo nella musica colta, ma anche in quella extracolta, e quello che sono stati certi fenomeni di organizzazione del tempo nella società. Per sommi capi, e limitandoci al secondo dopoguerra, c’è stato un diffuso positivismo nella capacità dell’uomo di gestire grazie alla scienza la vita. Ed ecco i primi studi scientifici che riprendono il taylorismo degli anni ’20 su una scala allargata, per organizzare la vita. Anche nella musica c’è una fede molto grossa nella possibilità di progettare ordinamenti assolutamente complessi di organizzare il tempo. Tutta la scuola seriale: Boulez, Stockhausen, anche Nono. Hanno scritto partiture in cui il tempo viene organizzato nei minimissimi particolari. Si pensava che in base a sistemi più o meno elaborati si potesse arrivare a un’efficacia del tempo. Negli anni ’60 – intorno al ’68 – c’è un rifiuto di aspetti di eteronomia temporale, di imposizioni, un rifiuto diffuso perché privo di strumenti adeguati per fare delle controproposte. Nella musica viene fuori l’improvvisazione, si asserisce di nuovo l’importanza di una scansione temporale individuale vissuta, non costretta entro schemi pedantici. L’improvvisazione ha coinvolto moltissimi. Parte dal jazz, ma coinvolge lo stesso Stockhausen, con partiture dove è molto importante l’elemento introspettivo, meditativo, emancipatorio dell’individuo. Negli anni ’70 c’è stato il movimento del «vogliamo tutto e subito». La indisponibilità a progettare, a pianificare, ad avere qualcosa tra qualche anno. Una sfiducia nella capacità di organizzare il tempo. E vediamo in molta musica questo aspetto per assurdo «atemporale», comincia, continua quasi uguale e poi finisce, senza sviluppo, senza tendenza, con solo un tappeto sonoro. Invece adesso molti musicisti stanno riscoprendo le ritmicità individuali, il respiro, altri ritmi del corpo, i cicli ambientali. Qualcosa di molto vicino a quello che si è detto prima con tentativi di violentare meno la musica di altri popoli, quella non bianca costretta nei contenitori temporali della nostra cultura.
[Il tempo scompigliato], 24 gennaio 1988
Albert Mayr (Bolzano 1943) è un compositore italiano. Ha condotto i suoi studi musicali nei Conservatori di Bolzano, Firenze e Darmstadt. Dal 1963 al 1969 ha lavorato con Pietro Grossi all’interno dello Studio di fonologia musicale di Firenze collaborando anche ad alcuni progetti del CNR. Impegnato a livello internazionale nel campo della musica elettronica, dal 1973 al 1990 ha insegnato come docente di musica elettronica e sperimentale al Conservatorio di Firenze. Autore di numerosi interventi musicali in varie parti del mondo, tra cui una all’ospedale psichiatrico di Volterra. Il suo archivio personale appartiene all’associazione Tempo Reale, fondato da Luciano Berio.
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