AI 2.6. Jeremy Rifkin: La scienza dal «volto umano»
II. La stirpe di Prometeo
2.6. Jeremy Rifkin:
La scienza dal «volto umano»
La corsa è stata troppo frenetica e dopo la bomba di Hiroshima ci vuole più cautela. Troppi rischi che mettono a repentaglio l’orizzonte in cui vivranno le nuove generazioni. Jeremy Rifkin non nasconde la sua paura. È convinto che non sia solo sua.
Ma paura di che?
Della diffusione nell’ambiente di microbi, piante e animali geneticamente alterati. Delle armi biologiche, degli organismi transgenici e degli animali brevettati, della distruzione del germoplasma, dell’uso industriale dell’ormone per la crescita bovina, dei bambini in provetta.
E paura perché?
L’industria biotecnica sta lavorando per manipolare organismi che poi rilascerà nell’ambiente e noi non sappiamo quale sarà l’impatto ambientale cumulativo a lunga scadenza. Potrebbe essere devastante, così come la crisi di enormi dimensioni creata dal rapido esaurimento delle scorte mondiali del germoplasma. La nostra scienza è velocissima nell’introdurre queste nuove tecnologie, non è in grado di prevedere con altrettanta velocità quali saranno gli effetti di queste trasformazioni radicali. Non esiste ancora una scienza capace di tenere conto dell’impatto globale con l’ambiente. Ecco, fino a quel momento, conviene fermarsi e riflettere.
Lei propone una moratoria per le biotecnologie, in attesa della nascita di un’«ecologia previsionale». Non le sembra una contraddizione chiedere l’arresto della scienza in attesa della scienza?
No. È di quel modo di fare scienza che chiedo l’arresto. I nostri «progressi» si basano su una filosofia della scienza che si richiama a Francis Bacon. A quell’epoca l’equazione sapere-potere-sicurezza era relativamente semplice. Ma il 1945 con l’esplosione dell’atomica ha impresso una svolta qualitativa. Il rapporto fra conoscenza, controllo e sicurezza è molto più delicato. Faccio un esempio: nel 1983 il governo degli Usa aveva deciso di introdurre il primo organismo manipolato geneticamente ed ha discusso di questo argomento per soli 20 minuti in una riunione alla quale non era presente neanche un solo scienziato dell’ambiente. E sarebbero riusciti nel loro intento, con chi sa quali risultati, se l’associazione che dirigo, la Foundation on economic trends, non avesse intentato una causa che ha consentito di ottenere una moratoria per quattro anni.
Più certezze chiede alla scienza. Più certezze prima di fare un passo sbagliato, irrimediabilmente sbagliato. Ma lei ha delle certezze che sarebbero passi sbagliati?
No. Io non ho certezze. Ma non sono io che voglio introdurre quelle tecnologie, per cui non sono io che devo portare le prove che sarebbe un passo sbagliato. Sono le multinazionali della manipolazione genetica ed i governi che le legittimano che devono portare le prove che non sarebbe un passo sbagliato. La mia non è una paura senza basi, è una preoccupazione legittima.
Ma se le obiettassero che queste ricerche potrebbero in futuro salvare milioni di vite umane, insisterebbe nel chiedere l’interruzione degli esperimenti?
Milioni di persone nel mondo soffrono la povertà, una nutrizione inadeguata, carenze igieniche. L’ingegneria gene-tica viene reclamizzata come il toccasana che potrebbe sfamare la gente che ha fame. Ma io non ci credo. Produciamo già in abbondanza, in quantità sufficienti a rispondere al bisogno. La fame ha altre cause. La nostra scienza è cresciuta con il colonialismo e l’imperialismo. Tutti conoscono le piogge acide, l’effetto serra, la fragilità dei nuovi organismi manipolati. Tutti hanno sentito parlare delle scorie atomiche. La scienza ha inquinato, distrutto, sporcato e noi adesso vorremmo riutilizzarla per pulire, per disinquinare, per ricostruire. Non ci credo.
Una nuova scienza. Non le sembra un po’ un’utopia?
Molti anni fa dei giornalisti mi dissero: «una volta che c’è il nucleare non lo si potrà fermare». Eppure in America non si costruiscono più centrali da dieci anni. Voi avete avuto un referendum che ha dato una risposta chiara. Lo stesso è successo in Svizzera e in altri paesi. E la convergenza ambientalista sta disegnando una nuova mappa degli schieramenti politici un po’ dovunque: da una parte chi è per il rispetto della vita, dall’altra chi vede la vita solo come un’utilità. Su questo terreno mi pare che ci siano delle convergenze anche fra occidente e paesi orientali.
E tutto questo non arresterà il progresso?
Arresterà il progresso inteso come la strada più breve. Arresterà il progresso così come lo intendono le multinazionali: profitti immediati senza alcuna attenzione agli effetti a lunga scadenza. Ma non il progresso che ha rispetto dell’ordine naturale delle cose. Io sono a favore della scienza e della tecnologia e del loro progresso. Di una tecnologia però che non distrugga tutte le altre. Di una scienza che non creda di essere l’unica strada percorribile.
[Le multinazionali della scienza], 15 dicembre 1987
Jeremy Rifkin (Denver 1945) è un economista, attivista e saggista statunitense. Laureatosi in economia presso la Wharton School of the University of Pennsylvania (Pennsylvania) ed in Affari internazionali presso la Fletcher School of Law and Diplomacy della Tufts University, negli anni sessanta e settanta è stato un attivista del movimento pacifista statunitense, fondando la Citizens Commission con l’intento di rendere noti i crimini di guerra commessi dagli americani durante la guerra del Vietnam. È fondatore e presidente della Foundation on Economic Trends (FOET) e presidente della Greenhouse Crisis Foundation. Non ha mai smesso il suo impegno nel movimento pacifista e ambientalista ed è autore di numerosi saggi.
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