AI 2.3. Ludovico Geymonat: Galileo e la libertà

Ludovico Geymonat

Appropriazione indebita

II. La stirpe di Prometeo

2.3. Ludovico Geymonat: Galileo e la libertà

Sul frontespizio c’era scritto: MDCXXXVIII. Trecentocinquanta anni fa Galileo Galilei mandava alle stampe i suoi Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica e ai movimenti locali. A ricordare quei fondamenti della scienza e della tecnica l’Università di Firenze, nei giorni scorsi, ha chiamato vari studiosi, tra cui lo storico della filosofia Ludovico Geymonat. Lo abbiamo intervistato e ne è venuto fuori qualcosa di più di una commemorazione.

La signora Giselle, moglie di Ludovico Geymonat, storce il naso. Dice, rivolgendosi al marito: «Un’intervista a “l’Unità”, all’unico giornale che non ha scritto una riga sul tuo ultimo libro, La libertà?». Ma il marito non riesce a nascondere l’antico amore per il quotidiano comunista e accetta di buon grado di parlare di Galileo Galilei a 350 anni dalla pubblicazione dei Discorsi. Ci sarà anche lo spunto per accennare al suo libro.

Professor Geymonat, lei ha tenuto una relazione su scienza e tecnica nei Discorsi. Vorrei sapere se per lei Galileo è da considerarsi ancora una pietra miliare della nostra scienza contemporanea, cosi come noi la intendiamo ancora oggi.

Dato il suo livello, non è affatto un uomo passato, perché le indicazioni che ci ha dato, quell’incitamento oderni ricercatori. Naturalmente le domande che oggi si fanno alla natura sono diverse, però la strada è sempre quella: matematica e osservazione dei fatti.

Forse è proprio per questo che quando qualcuno tenta di «criticare» o addirittura di liquidare la scienza contemporanea se la prende tanto con Galileo. È il caso, mi pare, del fisico Marcello Cini. Lo abbiamo intervistato, tempo fa, sull’«Unità» e lui avanzava l’ipotesi di abbandonare Galileo per tornare ad Aristotele. Lei che ne pensa?

Marcello Cini è una cara persona, ma è un po’ matto…

… però mi sembra che riveli un atteggiamento che anche in altre forme pervade la nostra cultura. Una paura verso quello che può produrre la nostra scienza.

Sì, sì. Ma io non credo che si debba abbandonare la strada della scienza. Credo che bisogna continuarla razionalmente. Mi rendo conto delle conseguenze pericolosissime prodotte dalla scienza moderna: si pensi, nell’ambito della fisica, alla fisica atomica, oppure nella biologia all’ingegneria genetica. Ma non per questo bisogna troncare con la scienza, ma svilupparla, approfondendo razionalmente. Altrimenti noi passiamo da un razionalismo scientifico maldigerito a una magia, all’irrazionalismo e la tendenza di Cini, che io conosco bene, è un po’ quella di precipitare nell’irrazionalismo.

E questo sarebbe pericoloso?

Sarebbe pericolosissimo, perché tra l’altro significherebbe abbandonare la nostra società nelle mani di maghi, di fattucchiere e di industriali che si valgono di questi. Perché non si creda che gli industriali non approfitterebbero subito di questo irrazionalismo. Quanto alla sfiducia nella scienza io ho già scritto altre volte che Agnelli sarebbe ben contento di dire: «la colpa delle contraddizioni dell’economia attuale non è della classe capitalista, è inutile che ve la prendiate con noi, prendetevela contro la scienza». E cioè il tentativo di dirottare le contraddizioni, i malcontenti della società attuale contro la scienza, anziché contro lo sfruttamento capitalistico della scienza.

Eppure, quell’atteggiamento mi sembra che sia presente in molta filosofia italiana, che ha riscoperto Heidegger o scuole…

… sì, sì, il pensiero debole. C’è questo pericolo della cultura di ricadere nell’irrazionalismo. Ma mi sembra anche che ci siano persone più serie che combattono contro questo pericolo. Penso al mio allievo Silvano Tagliagambe, docente all’Università di Cagliari.

Ma come spiega che proprio questo pensiero debole, questa riscoperta dell’irrazionale, spesso maturino in ambienti di sinistra, e quindi in ambienti che hanno una tradizione di razionalismo, di legame alla scienza?

Io penso che questo sia un errore delle correnti di sinistra ed è ciò che ho sostenuto in tutti i miei libri fino all’ultimo, La libertà. La libertà non deve rappresentare una fuga nell’irrazionale, una fuga nel misticismo, ma un approfondimento di quella che è la società razionale. Già all’inizio del secolo c’erano stati dei pericoli simili e contro questi pericoli aveva combattuto Lenin in Materialismo ed empiriocriticismo. Il fatto è che i partiti di sinistra attuali hanno abbandonato completamente questa posizione e questa è una delle ragioni per cui io sono una pecora nera nell’ambito della sinistra. Del resto, se la sinistra questo non lo capisce, io posso dirle solo: peggio per lei.

Torniamo a Galileo. Al rapporto che c’era in lui fra scienza e tecnica. Da una parte l’osservazione, la matematica, l’astrazione; dall’altra la tecnica, cioè, sembrerebbe, qualcosa di molto empirico, di molto «artigianale». C’è questo in Galilei?

Galileo ha applicato la tecnica, non l’ha teorizzata. L’ha applicata in modo veramente notevole per l’epoca. Non poteva adoperare il computer o i satelliti, questo è ovvio. Ma ci ha aperto una strada che conduce direttamente alla scienza attuale. Per lui la tecnica non era più artigianale, era una tecnica già elevata al livello del suo tempo. Galileo era partito dalle osservazioni artigiane, ma poi le ha elaborate, in base alle conoscenze della scienza di allora. Per esempio, il suo famoso cannocchiale era stato inventato da artigiani dei Paesi Bassi e gli era giunta notizia così, vagamente. Ma lui lo ha elaborato in forma nuova e soprattutto lo ha usato per dei fini che quegli artigiani non si sognavano neanche. Cioè per guardare il cielo e ha avuto fiducia in quello che il cannocchiale gli dava, nei risultati che gli dava. Del resto la tecnica era già sviluppata molto prima di Galileo, nel Cinquecento. Ma non c’era, a mio giudizio, la tecnica usata come strumento della scienza.

Lei ha studiato Galileo per tanti anni. Che cos’è che le è più caro di questo personaggio dai mille volti?

Preferisco la sua umanità che è piena di punti deboli. Nei miei studi l’ho sempre definito un «preilluminista», un grande scienziato, che ha voluto scrivere quanto più è possibile in volgare e non in latino perché credeva che ci fosse un pubblico capace di capire. Ma è stato anche una persona debole, che però ha avuto la forza di riprendersi dopo la condanna e l’umiliazione dell’abiura.

E da un punto più strettamente scientifico?

La sua teoria del moto e l’importanza data alla misurazione del mondo fisico. Se prendiamo la fisica atomica ci possiamo rendere conto di quanto continui ad essere fondamentale la misurazione. Quello della misura è un capitolo fondamentale. Naturalmente oggi, col computer, siamo ad un livello infinitamente più raffinato di quello di Galileo. Però siamo su quella linea. Anche lui ha cercato di fare degli strumenti di misura che per l’epoca erano estremamente efficaci.

Insomma, ce lo teniamo caro questo Galileo?

Galileo continua ad essere attuale. Naturalmente non vuol dire che occorre ripetere quello che lui diceva. Direi allora che il nostro atteggiamento verso Galileo dev’essere analogo all’atteggiamento che lui stesso aveva verso Aristotele quando diceva che se Aristotele avesse potuto risorgere e vedere i risultati dell’osservazione con il cannocchiale avrebbe trovato lui, Galileo, come suo vero discepolo e non quei ripetitori manualistici di ciò che aveva scritto. E questo si ripete in ogni ambito, per esempio, per riferirsi alla sinistra, nell’ambito dei ripetitori di Lenin. Bisogna capire quello che aveva detto questo grand’uomo, che fosse Aristotele, che fosse Galileo, che fosse Lenin, e sviluppare quello che avevano detto di più profondo. Non fermarsi alla lettera. E gli aristotelici dell’epoca di Galileo facevano invece arzigogoli pur di salvare le teorie aristoteliche nell’ambito delle loro minuzie.

Questa, professor Geymonat, è una lancia spezzata contro gli «ismi», contro il galileismo, il leninismo, l’aristotelismo.

Diciamo di sì, se mi vuole interpretare alla lettera. Io dico che c’è la necessità di rifarsi ad Aristotele, a Galileo, a Lenin, ma di rifarsi in modo intelligente e spregiudicato… poi tutto quello che dico può essere sbagliato. Ma questo è il mio parere.

[«Galileo, uno di noi»], 18 dicembre 1988

Ludovico Geymonat (Torino 1908 – Rho 1991) è stato un filosofo, matematico ed epistemologo italiano, tra i più importanti del Novecento. Espulso all’ultimo anno di corso da un liceo classico torinese gestito dai gesuiti per uno “sgradito” tema su Giovanna d’Arco, conseguì la maturità al Liceo Cavour. Si laureò poi in filosofia sempre a Torino nel 1930 e in matematica nel 1932. Caratteristica di fondo della sua ricerca fu proprio quella di unire filosofia e scienza, cultura umanistica e scientifica. Assistente di analisi algebrica nell’Ateneo piemontese, rifiutò l’iscrizione al partito fascista precludendosi così la carriera accademica e l’insegnamento statale. Nel 1934 andò in Austria per approfondire la filosofia neo-positivista del Circolo di Vienna. Iscritto clandestinamente dal 1940 al Partito comunista, dal quale si allontanò negli anni Settanta, insegnò matematica nella stessa scuola privata dove Cesare Pavese insegnava italiano. Partecipò alla Resistenza nella Brigata Carlo Pisacane. Dopo la Liberazione fu assessore al Comune di Torino. Nel 1949 vinse la cattedra di filosofia teoretica all’Università di Cagliari, quindi a Pavia e, dal 1956 al 1978, tenne la prima cattedra di filosofia della scienza istituita in Italia all’Università di Milano.

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