AI 1.8. Michela Nacci: Amerika, America!
Appropriazione indebita
I. Ieri e oggi
1.8. Michela Nacci: Amerika, America!
Nelle settimane in cui gli iscritti al Partito comunista italiano si interrogavano, felici o inquieti, sul significato della loro esperienza e sui lidi ai quali approdare, in libreria usciva un volume di Michela Nacci, pubblicato da Bollati Boringhieri, che si intitola L’antiamericanismo in Italia negli anni Trenta. Michela Nacci è una giovane ricercatrice fiorentina che nei suoi studi, il più importante dei quali è senz’altro Tecnica e cultura della crisi edito da Loescher, ha scandagliato la cultura della crisi e la letteratura sul tramonto dell’Occidente in Europa fra le due guerre. È percorrendo quella strada che si è imbattutta nell’antiamericanismo.
La contemporaneità dei due eventi, la fase precongressuale del Pci e la pubblicazione di questo libro, è ovviamente casuale. Ma c’è un nesso. Perché nel dibattito sul fallimento dell’esperienza dei paesi dell’Est si è innestato un richiamo all’antiamericanismo. Come se un’equa e bilanciata presa di distanza, dalla Russia ma anche dall’America, potesse preservare il valore di una scelta.
Di qui l’idea di intervistare Michela Nacci non tanto sul suo libro, che affronta un atteggiamento culturale in un periodo molto lontano, quanto sui caratteri generali dell’antiamericanismo per cercar di capire se è un fenomeno duraturo.
La prima cosa che Michela Nacci dice è che «bisogna distinguere fra posizioni antiamericane e antiamericanismo. Le prime, da sempre presenti nella politica italiana, sono per lo più risposte a problemi concernenti interessi reali di politica di potenza. Sono posizioni che ha avuto anche la Francia e che per lo più erano motivate dalle differenze fra regimi politici. È il caso dell’atteggiamento tenuto sia dal fascismo che dal nazismo nei confronti degli Stati uniti».
Che cos’è allora l’antiamericanismo?
L’antiamericanismo è qualcosa che investe il campo dei valori. È un atteggiamento che punta sulle differenze fra civiltà diverse. Fa un paragone e ne tira delle conclusioni. È un sistema complessivo dove c’è qualcosa di più dell’economia o della politica. Considera, per esempio, come mangia là la gente, come si veste. Negli anni Trenta l’antiamericanismo è stato quell’atteggiamento attraverso il quale l’Europa ha cercato di definire se stessa. Era cioé attraverso l’immagine negativa dell’America che si cercava di dare una risposta ai problemi dell’Europa.
A quali problemi, esattamente?
Alla nascita della società di massa e dei consumi, al passaggio dalla «cultura» all’«industria culturale». In altre parole al problema della modernità. L’antiamericanismo è stato il cavallo di battaglia di quegli europei per i quali la modernità era un problema. Ed è stato un cavallo di battaglia molto diffuso, radicato, che ha dato vita ad un vero e proprio senso comune.
Esiste ancora questo senso comune?
Non credo che oggi esista un antiamericanismo consistente. Nel senso comune ci sono opinioni antiamericane, però non sono qualcosa di coerente e di consistente. Penso, per esempio, al libretto di uno psicologo emigrato negli Usa, Paul Watzlawick. È un libretto uscito in Italia nel 1978 che ha avuto abbastanza successo: America: istruzioni per l’uso. Ecco, lì non c’è antiamericanismo, al massimo c’è ironia. Watzlawick ripercorre i pregiudizi degli anni Trenta: gli americani mangiano male, vestono male, preferiscono l’artificiale al naturale. Ma il giudizio finale è che sono generosi e simpatici, anche se sarebbe meglio che non si tagliassero le unghi in pubblico.
Dunque non esiste più l’antiamericanismo?
Direi che complessivamente l’antiamericanismo non c’è più. Ma c’è un’eccezione che riguarda la destra.
Quale destra?
La destra istituzionale, quella di Rauti per intendersi, e la cosiddetta «Nuova destra». Nelle loro posizioni c’è sostanzialmente un giudizio negativo della civiltà americana. La destra istituzionale, avendo un modello nel fascismo, ripropone la continuità diretta fra liberalismo e comunismo. È stato un tema ricorrente negli anni Trenta: l’America era un comunismo con una faccia democratica. La «Nuova destra», invece, punta la sua critica sull’incapacità dell’America di mantenere dignità nell’orgia del consumismo. È una critica all’economia e al mercato in quanto tale: a ciò che l’America rappresenta. Fatta questa eccezione, direi che l’antiamericanismo non c’è più, ed anzi c’è un ritorno di filoatlantismo, un’autoesaltazione dell’Occidente preso nel suo complesso. Le paure che rimangono, non riguardano il moderno, semmai la catastrofe nucleare, l’estinzione della vita.
La modernità non è più un nemico?
No, quella modernità che negli anni Trenta aveva fatto tanta paura ci ha fagocitato. L’America non è più il paese che ci inquieta, semmai è il Giappone. Questo non vuol dire che l’America non abbia ancora la capacità di raccogliere paure e proiezioni: è un paese che si presta al mitologico. Basta leggere L’America di Baudrillard per riscoprire una costruzione europea su un’America mitica.
L’Italia però ha conosciuto anche varie ondate di americanismo: Pavese, Vittorini, la scoperta di Kerouac.
È vero, ma nella prefazione di Americana, l’antologia di Vittorini e Pavese, Cecchi parlava di «letteratura dementata». E gli stessi Pavese e Vittorini, finita la guerra, si sono spostati su posizioni antiamericane. Il salto è forse alla fine degli anni ‘60, con quella che Fofi ha chiamato l’americanizzazione dell’Italia.
Secondo lei la sinistra italiana ha espresso posizioni antiamericaniste?
Direi di no. Se l’America non è piaciuta, non è piaciuta in quanto capitalismo. In alcuni ambienti c’è stata l’identificazione tra America e “americanata”, ed è magari anche stata un’identificazione diffusa, ma che non si è aggregata in un nucleo. Direi che la sinistra non condivide il disprezzo per i costumi americani. Si guarda, al di là dell’oceano, ad un paese che merita di essere criticato anche profondamente, ma c’è spazio per i riconoscimenti, per l’apprezzamento. Complessivamente si tratta di un atteggiamento senza “ismi”.
[L’antiamericanismo, un fenomeno di destra], 29 marzo 1990
Michela Nacci Laureata nel 1981 in storia della filosofia con Paolo Rossi Monti ha poi studiato presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi con borse di studio CNR e CNR-NATO, conseguendo il dottorato all’Istituto universitario europeo di Fiesole, dove ha continuato a svolgere ricerca fino al 1989, quando è diventata ricercatrice presso l’Università de L’Aquila prima in Storia della filosofia contemporanea, poi in Storia delle dottrine politiche. Materia che insegna dal 2002 nel medesimo Ateneo come professore prima associato e poi di ruolo. Ha diretto un master in “Strategie per la comunicazione. Politiche e pratiche del rapporto con il pubblico”. Oltre ad insegnare anche in varie università straniere, è autrice di molti saggi e fa parte di numerose associazioni accademiche.
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Tags: Appropriazione indebita, Cesare Pavese, Elio Vittorini, Michela Nacci, Paul Watzlawick