AI 1.6. Mario G. Rossi: Gabellati

Appropriazione indebita

I. Ieri e oggi

1.6. Mario G. Rossi: Gabellati

L’autocritica è già iniziata. Troppo poco si è discusso del peso che ha la politica fiscale, quasi sempre fatta passare in secondo piano, dopo la produzione, i rapporti tra le classi, gli equilibri politici. È una riflessione entrata nel dibattito politico di questi giorni, arricchito da un fuoco di fila di prese di posizione proprio sul tema delle tasse. Ma l’autocritica non è solo immediata. Ha un retroterra storico, delle costanti sulle quali si è soffermato Mario G. Rossi, docente di storia contemporanea all’Università di Firenze, allievo di Ernesto Ragionieri. La sua ricerca sulla riforma fiscale in Italia dall’Unità ad oggi, o meglio, sul «problema storico» di questa riforma, su ciò che ha significato storicamente e politicamente e non sugli aspetti tecnici, è stata appena pubblicato nel numero 170 della rivista «Italia contemporanea».

Va subito al sodo. Mario G. Rossi inizia il suo articolo parlando di un «nodo storico della questione fiscale in Italia ».

In che cosa consiste questo nodo, professor Rossi?

Nelle caratteristiche inique di tutti i meccanismi adottati e nel fatto che la sinistra, sia i partiti che i sindacati, abbiano sempre sottovalutato l’incidenza e le conseguenze di questa iniquità.

Partiamo dall’iniquità. Quali sono le caratteristiche storiche del sistema fiscale italiano?

È un sistema che ha sempre pesato quasi esclusivamente sulle classi popolari. Si parte nel 1869 con la tassa sul macinato. Lo Stato appena nato ha bisogno di risorse, soprattutto per mettere in piedi il proprio esercito. I prelievi gravano subito sulle classi popolari, alleggerite con l’imposizione indiretta: i dazi, la tassa sul grano. Le classi abbienti sono subito esonerate ed anzi vengono messe in condizione di «lucrare » con la politica del debito pubblico. Anziché la ripartizione progressiva delle entrate in base al reddito, si dichiara l’ammanco dello Stato. La collettività paga, ma l’emissione dei titoli di Stato consente ai ceti ricchi di avere un interesse sul prestito che fanno.

È lo stesso meccanismo vigente ora.

Appunto. E infatti il ricorso al deficit pubblico, anziché la tassazione diretta, è una delle costanti della politica fiscale nella storia d’Italia. C’è subito dopo il 1861, ci sarà durante la prima guerra mondiale, con 7 prestiti nazionali per far fronte alle spese di guerra e ancora col fascismo e nel dopoguerra.

E le altre costanti?

La pressione indiscriminata sulle classi popolari e lo sgravio, o addirittura l’esonero, per i ceti abbienti. Ma ci sono altri due aspetti che costituiscono una sorta di sfondo del problema.

Quali?

Innanzitutto il rapporto stretto tra classi privilegiate e Stato, l’identificazione prima, il sistema clientelare poi. Certo, si alternano le classi a seconda del periodo: il blocco industriale-agrario prima, i ceti commerciali e professionali poi, il complesso mondo della finanza. Ma lo Stato si fa sempre rappresentante di esigenze precise.

E l’altro elemento qual’è?

Appunto quello della sottovalutazione da parte della sinistra. Questa sottovalutazione è forse giustificata nella prima fase dello Stato unitario. Buona parte degli ultimi decenni del secolo scorso è percorsa da lotte che hanno al loro centro la questione delle tasse. Si pensi alle sommosse contro la tassa sul macinato, contro il dazio sul pane, agli stessi fasci siciliani. Il problema delle tasse allora era «immediato » e in questa lotta per un bisogno così forte poteva sfuggire il senso di una riforma complessiva del sistema fiscale. È anche in quel periodo, o poco dopo, che si tentano nei comuni amministrati dai blocchi popolari gli unici esperimenti di una equa politica fiscale a livello locale.

E in seguito che atteggiamento ha avuto la sinistra?

Ciò che colpisce è la mancanza di iniziativa su questi temi. Non solo non c’è mai stata una mobilitazione che avesse al centro il problema delle tasse; ma c’è stato spesso anche un atteggiamento quasi reverenziale verso quei tecnici competenti sempre presentati, e riconosciuti, come esperti al di sopra delle parti, mentre di fatto perseguivano precisi interessi politici.

È il caso di Luigi Einaudi?

Sì. Einaudi si è distinto per la sua sistematica opposizione ai più importanti progetti di riforma, dalla nominatività dei titoli introdotta da Giolitti nel 1920 al cambio della moneta nel secondo dopoguerra. Ma Einaudi non è il solo caso.

Chi, anche?

Pensiamo, per esempio, al ruolo di Visentini, che non ha certo responsabilità secondarie nello spostamento dell’Irpef a danno del lavoro dipendente e nel cosiddetto fiscal drag. Ma invece di attaccarlo su questo terreno, partiti di sinistra e sindacati hanno piuttosto lasciato passare l’immagine di un interlocutore aperto e illuminato. Ha fatto più testo lo scontrino fiscale imposto ai commercianti che non quanto è successo dal 1974 in poi con il mancato funzionamento dell’anagrafe tributaria, l’insufficiente lotta all’evasione fiscale, il mancato adeguamento del catasto e degli organici, proprio quando esplodeva il processo inflazionistico. Col risultato a cui si è assistito negli ultimi anni: l’enorme dilatazione del debito pubblico; l’aumento dal 45 al 70 per cento della quota pagata dai lavoratori dipendenti per l’imposta sul reddito delle persone fisiche; la crescita dell’evasione fiscale, arrivata a 240 mila miliardi di imponibile, per ammissione dello stesso ex ministro delle finanze Giuseppe Guarino: una cifra che corrisponde a 50 mila miliardi di gettito sottratto all’erario, la metà esatta del disavanzo del bilancio dello Stato.

Ma è tutta così buia la storia della sinistra sulle questioni fiscali?

Quelle che io ho descritto sono costanti dell’atteggiamento della sinistra, che però è stato diverso a seconda delle singole situazioni. Ci sono stati anche tentativi di impegno da parte della sinistra sul tema fiscale e non è un caso che gli unici due momenti di attenuazione della questione fiscale in Italia abbiano coinciso con due periodi di «rivolta politica » durante i quali la sinistra ha assunto una più decisa iniziativa politica.

Quali sono questi due momenti?

Il primo coincide con l’occupazione delle fabbriche nel 1920. Il programma di riforme del governo Giolitti poggia su due capisaldi: l’avocazione dei sopraprofitti di guerra e la nominatività dei titoli azionari. Questi risultati, fermamente osteggiati proprio da Luigi Einuadi, furono preceduti da una serie di proposte di riforma della finanza locale e statale avanzate da Matteotti nel 1919.

E il secondo?

Nell’immediato dopoguerra, durante i governi di solidarietà nazionale, nel clima ancora caldo della Resistenza. I ministri della finanza Antonio Pesenti e Mauro Scoccimarro, entrambi comunisti, avanzarono due proposte che segnavano una svolta nella politica fiscale. La prima era quella dei consigli tributari che introducevano una forma di controllo decentrato dei redditi goduti e delle dichiarazioni e che furono spazzati via nel ’51 con la riorganizzazione degli uffici finanziari ed il riordino tributario di Vanoni. La seconda quella del cambio della moneta, duramente osteggiata e grottescamente finita con il furto dei cliché delle nuove banconote.

C’è stato però anche un terzo periodo di diversi equilibri politico-sociali nel paese, alla fine degli anni ’60, fino alla metà degli anni ’70.

È stato proprio allora che la sinistra ha maggiormente sottovalutato il peso del problema fiscale. Sono gli anni in cui viene varata la riforma su cui si basa ancor oggi il sistema delle tasse. È in quel periodo che, dinanzi alla dilatazione della spesa pubblica, si riafferma il ricorso all’indebitamento a copertura del fabbisogno statale. Viene introdotto il meccanismo della ritenuta alla fonte per i lavoratori dipendenti, ma alla generalizzazione dell’imposta progressiva non corrisponde un rigoroso sistema di accertamento di tutti i redditi e di repressione dell’evasione. E con l’aumentare del processo inflattivo cresce lo squilibrio a danno dei redditi fissi, colpiti da aliquote via via più elevate. È contro questo meccanismo perverso che la sinistra ha davvero fatto poco.

E a che cosa si può attribuire questa sottovalutazione?

Be’, questa potrebbe essere la materia per un altro studio. Quello che si può notare fin da ora è che neanche nel campo degli studi storici si è mai prestato molta attenzione a questo aspetto. Volendo cercare delle spiegazioni, credo che si possa dire che concorrono vari elementi: senz’altro uno di cultura politica. Non si è compreso il contenuto riformistico del terreno fiscale. Se si guarda alla riforma del 1973-74, avvenuta dopo un periodo di sviluppo, si potrebbe dire che la sinistra ha continuato a concentrare l’attenzione sul modello di sviluppo anziché sul terreno della distribuzione del reddito. Ora il terreno della produzione, come quello dei rapporti di forza fra le forze politiche, è senz’altro il nodo principale, ma non può escludere l’altro. In effetti proprio sulla politica fiscale la sinistra ha perso in quel periodo anche un caposaldo politico con la cancellazione di quel poco potere che in materia fiscale avevano gli enti locali.

La finanza locale. È un capitolo non secondario della storia fiscale italiana?

Senza dubbio. Ha costituito per un certo periodo un correttivo alle carenze dell’apparato centrale. Non tale da riequilibrare la situazione, ma sufficiente a supplire, in alcune zone, a storture antiche. Prima dell’avvento del fascismo le amministrazioni rosse erano riuscite a imporre ai ceti possidenti una serie di tasse, da quella di famiglia alla sovraimposta fondiaria. Furono anche queste scelte a scatenare lo squadrismo, elemento spesso tralasciato nella ricostruzione storica di questo fenomeno.

Ma la storia della politica fiscale in Italia si differenzia da quella negli altri paesi occidentali?

In Svezia e in Inghilterra, nel secondo dopoguerra, la tassazione diretta ha avuto aliquote altissime per i ceti abbienti, al limite della spoliazione. Quando è stata abbandonata la politica del Welfare State, queste aliquote sono state ridotte, ma il sistema fiscale è rimasto attivo ed operante con una sua fondamentale equità. Con evasioni e storture senz’altro, ma almeno efficiente e più equilibrato, cosa che non è avvenuta in Italia.

[Tutto ebbe inizio con la tassa sul macinato], 18 maggio 1988

Mario G. Rossi, è nato a Firenze, e in quell’Università si è laureato con Ernesto Ragionieri intraprendendo quindi la carriera accademica. È stato titolare della cattedra di Storia contemporanea, nonché direttore del Dipartimento di studi storici e geografici.

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