AI 1.5. Giancarlo De Carlo: Il mondo in prospettiva
Appropriazione indebita
I. Ieri e oggi
1.5. Giancarlo De Carlo: Il mondo in prospettiva
Per fare una capitale – e ancor più, anche se solo per un anno, una capitale europea della cultura – ci vuole prima una città. Una città che, nella sua lunga storia, è stata capitale. Era la tappa intermedia per avvicinare il governo dello Stato unitario, dalla «lontana» e «sbilanciata» Torino alla centrale e universale Roma: in mezzo c’era Firenze, culla di cultura e di governo illuminato, centro celebre in tutto il mondo, meta obbligata di pellegrinaggi colti ed artistici.
Su un impianto antico e stratificato, la città medievale ed il centro rinascimentale, ecco arrivare modelli d’Oltralpe, idee parigine, buolevard al posto delle mura, piazze che dicessero a chi arrivava da fuori: «Ecco, qui si possono cambiare merci, si possono fare affari». Ne parliamo con l’architetto Giancarlo De Carlo.
Firenze ha importato un modello di città? O la sua tradizione culturale, il modo come si è sviluppata intorno ai suoi monumenti ed alla splendida conca che la ospita sulle sponde dell’Arno, hanno dato messaggi ad altre città, sono state modello in Italia e in Europa?
Firenze, come tutte le città medievali italiane, è stata un modello urbanistico ed architettonico. Ha fornito strumenti per la crescita di altre città europee. Ma più delle altre ha dato un contributo straordinario per il fatto che è stata la culla del Rinascimento. Le opere che vi sono state costruite – penso soprattutto ai lavori di Brunelleschi e dell’Alberti – sono diventate un modello a cui ovunque si è attinto.
Un modello di che tipo?
Con la costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore è iniziata la ricerca vera e propria nel campo della costruzione architettonica. Brunelleschi ha letteralmente sovvertito le tradizioni, costruendo qualcosa che fino a quel momento sembrava impossibile da realizzare.
Il merito di Brunelleschi è stato dunque quello di insegnare alla civiltà che si potevano costruire anche opere azzardate?
Certamente Brunelleschi va visto come un grande inventore di tecniche e l’altra grande rivoluzione del Rinascimento è stata senz’altro l’invenzione della prospettiva. Questa non è stata solo una conquista tecnologica che ha avuto la sua influenza nell’arte e nell’architettura, ma anche, e forse soprattutto, un nuovo modo di vedere il mondo per l’uomo. Perché con la prospettiva, l’uomo metteva se stesso al centro del mondo.
Un uomo che poteva conquistare il mondo e dominarlo?
E che per far questo aveva bisogno di affermarsi come potere. È questo il significato che poi ha assunto il Barocco che, nelle sue concezioni architettoniche, ha messo il potere al posto dell’uomo nel centro del mondo. Ma i segni di questo cambiamento c’erano anche prima. È già nel binario della cultura rinascimentale che nasce la distinzione tra intelletto e lavoro, e ancor più tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. È lì che nascono le specializzazioni e la divisione del lavoro su cui si poggia la spartizione del potere. E questo ha coinciso con la conquista degli artisti di affermarsi ed essere riconosciuti come specialisti della loro professione. Perché è in quel momento che si è dato l’avvio alla parcellizzazione del lavoro. Prima, per spiegarsi, l’imbianchino ed il pittore erano la stessa cosa. Il pittore faceva anche l’imbianchino ed era un pittore perché dipingeva bene. E così era per gli scultori: erano loro stessi a scolpire, come faceva Michelangelo che usava lo strumento con la sua mano. La specializzazione ha coinciso con la divisione di queste mansioni ed ha finito per creare da una parte quello che prepara la strumentazione, e dall’altra quello che ne inventa il suo uso.
È questo il patrimonio che Firenze ha esportato, ciò che ha offerto al mondo?
Non solo. Nel Rinascimento Firenze non ha esportato solo concezioni, ma anche personaggi. Sono questi che sono diventati esempi di riferimento. Non esisteva un’urbanistica rinascimentale e nessuna città è stata «copiata» da Firenze. Ma, a quei personaggi che avevano lavorato per fare di Firenze quello che è ancora, il mondo chiese aiuto per tirare su altre città.
Insomma, ha valorizzato l’immagine di se stessa, alcuni dei suoi uomini, ma non la propria cultura?
Sì. Nel campo urbanistico e architettonico, Firenze ha offerto il suo patrimonio alla cultura mondiale, soprattutto nel Rinascimento. Ma anche in epoche più recenti ci sono stati movimenti importanti. Penso al piano di Poggi, alla fine dell’800, quando Firenze divenne capitale d’Italia, e ad alcune figure più recenti, come Michelucci, Ricci, Detti.
Che cosa ha significato il piano di Poggi, da un punto di vista di cultura urbanistica?
Il piano di Poggi è stato uno dei primi piani di rilievo fatti in Italia. Si guardava alla storia della città, prevedendone il futuro e tenendo conto dell’ambiente che lo circondava. Di grande valore sono state anche figure, appunto, come quelle di Michelucci, Ricci e Detti. Figure che sono arrivate alla risonanza internazionale, ma non con il clamore che si meritavano. E questo perché la cultura architettonica è rimasta chiusa, privata, non ha avuto legami come cultura di città ma semmai di persone singole.
Torniamo al piano di Poggi. Anch’esso è stato una ulteriore affermazione delle specializzazioni. Questa volta delle specializzazioni della città: il centro economico-finanziario, le zone residenziali, i quartieri popolari, le grandi piazze sui viali di circonvallazione come centri di scambi e di affari?
In parte è vero, ma la fisionomia moderna della città, questa divisione delle zone a seconda della loro specialità e della loro rendita, è avvenuta dopo. Non si è più guardato, come invece aveva fatto il Poggi, al carattere ambientale della città, pensando l’architettura in grande scala. È seguito uno sviluppo per strappi, legato alle specializzazioni e ad interessi molto particolari. Per questo Firenze oggi si trova in una situazione molto complicata: è una delle città più congestionate. È rimasta una città delle dimensioni che era, pur essendo triplicata nel numero di abitanti e nell’estensione delle periferie, e pur dovendo sopportare una pressione turistica mai conosciuta prima. E soprattutto è diventata difficile la comunicazione con Firenze.
Cosa vuol dire che è diventata difficile la comunicazione con Firenze?
Che è difficile arrivarci e starci. Che il godimento delle cose, dei luoghi e delle situazioni è diventato complicato. Che gli stessi grandi monumenti sono inaccessibili. Penso all’arco della mia vita: dopo la guerra era straordinario il rapporto con la struttura della città. Ora, invece, ci si trova di fronte al consumo frenetico del patrimonio e bisognerebbe pensarci: perché non solo si consumano le pietre, ma anche le immagini come trasmettitrici di messaggi. Il che ha riflessi nella struttura della città. Non c’è più rapporto fra fruizione e tempo libero. Il protagonista non è più il cittadino ma il pendolare del turismo. Eppure Firenze ha le carte per essere una capitale europea della cultura. Anche dal punto di vista architettonico. Ma ci vuole una trasformazione. E non si tratta del biglietto d’ingresso, ma della costruzione di occasioni sociali ed economiche che ricostruiscano un equilibrio, che restituiscano una struttura sociale alla città.
[E il mondo fu messo in prospettiva], (inserto «La città dell’uomo»), 27 settembre 1986
Giancarlo De Carlo (Genova 1919 – Milano 2005) è stato un architetto italiano, tra i primi a sperimentare ed applicare in architettura la partecipazione da parte degli utenti nelle fasi di progettazione. È conosciuto internazionalmente per essere uno tra i fondatori del movimento Team X che operò la prima vera rottura con il Movimento Moderno e le tesi funzionaliste di le Corbusier. Per la sua capacità di instaurare sempre delle relazioni forti tra teoria e pratica non convenzionali si è imposto come uno tra i pensatori più acuti dell’architettura italiana. È padre dello scrittore Andrea De Carlo. Nel 1988 ha vinto il Premio Wolf per le arti.
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