AI 1.2. Eugenio Garin: Amata utopia
Appropriazione indebita
I. Ieri e oggi
1.2. Eugenio Garin: Amata utopia
Eugenio Garin ci tiene a precisarlo. Non è iscritto al Pci, non parla della svolta «da dentro». Il che, lo sa, gli impedisce di dire delle cose che altri possono dire, ma anche gli permette di dirne delle altre che altrimenti dovrebbe tacere. Da «partecipe osservatore esterno» ha seguito questo «sconvolgimento» cercando di guardare ai fatti con quel rigore con cui per tutta la vita ha osservato la storia della cultura italiana. Un rigore che è innanzitutto tentativo di spiegare storicamente quello che succede. L’intervista con lui sposta leggermente il tiro dal titolo dell’inchiesta: la nuova teoria politica diventa storia della nuova teoria politica.
Professor Garin, qualche settimana fa lei ha detto: «Mi sembra necessario e urgente che la più importante forza della sinistra italiana ripensi e ripensi se stessa». Perché?
Che dal 1944 in poi il Pci abbia avuto una lunga serie di mutamenti anche profondi mi sembra evidente. Basterebbe pensare a quello che fu, fra gli anni Quaranta e Cinquanta, sul piano teorico, la riflessione e l’assimilazione del pensiero di Gramsci, la lenta, la lunga e contrastata lettura dei Quaderni. A parte questo, che è un altro discorso, il Pci rimaneva, non dimentichiamolo mai, il partito che più di ogni altro si era battuto contro il fascismo, che aveva condotto con tanto eroismo la lotta di Liberazione, che alla fine della guerra, unito nell’azione al partito socialista, aveva fatto parte del blocco delle forze politiche che riorganizzarono e guidarono la rinascita democratica italiana. Collaborò lealmente ed efficacemente alla costituzione della Repubblica democratica italiana. Si batté come nessun’altra forza politica per la sua difesa e la sua attuazione. Per la Costituzione insidiata più o meno oscuramente caddero fino a ieri, non dimentichiamolo, in tragici agguati, le forze popolari.
Per contro, e proprio in virtù degli accordi fra i vincitori della seconda guerra mondiale, il Pci non solo fu escluso dai governi, ma, nonostante la sua rappresentatività, rimase in certo senso un proscritto. Ambasciatori di potenze vincitrici hanno dichiarato fino a ieri il non gradimento del Pci, qualunque fosse la volontà popolare. Per questo, ora che, finalmente, sembra che si annunci la pace dopo la seconda guerra mondiale; ora che, probabilmente, verranno ritirate almeno parzialmente le truppe di occupazione, è evidente l’urgenza per il Pci di chiarire la propria funzione come tutta la sua strategia, i suoi rapporti con tutti gli altri partiti socialisti e, più in generale, con tutta la sinistra europea.
Non sono solo gli avvenimenti straordinari di queste ultime settimane a spingere il partito comunista su questa strada. C’è stata questa estate la polemica su Togliatti.
Appunto! Per questo ho usato i termini «necessario» e «urgente». A poco giovano discussioni pseudostoriografiche parziali e interessate, facilmente strumentalizzate, fatte spesso con scarsa conoscenza degli avvenimenti. Che vi siano state scelte del passato, che già allora parvero contestabili, è indubbio. Basterebbe pensare al ’48, anche in Cecoslovacchia (di cui si fa menzione così di rado). D’altronde il modo equivoco, e spesso astioso, con cui è stato impostato il discorso su Togliatti, poco giova a quello che oggi importa di più: e cioè fare chiarezza sugli intenti, sulla funzione, e quindi sul futuro del Pci in un mondo che cambia rapidamente, soprattutto a proposito del comunismo e del socialismo. Sul passato del Pci, proprio gli storici comunisti hanno spesso fatto luce con rigore e senza indulgenze. Richiedere, a chi prende la parola, conoscenze adeguate delle situazioni, non significa affatto, come si ama dire, indulgere a «storicismi giustificazionisti». Significa un invito a non fare troppi errori.
Secondo lei, ciò che sta avvenendo all’Est va letto come un abbandono dei principi socialisti? L’Urss ha nel suo futuro l’omologazione al sistema di vita occidentale?
La lettura di quanto avviene oggi all’Est, così come ogni previsione sul futuro dell’Urss, è tutt’altro che agevole. Raramente, nel molto parlare che si fa, ci si ferma adeguatamente sulla profonda differenza fra la situazione della Russia, e dei paesi coinvolti nel ’17 dalla Rivoluzione d’ottobre, e le condizioni subite nel ’45, in conseguenza della sconfitta tedesca, dai paesi travolti prima dalla conquista nazista ed annessi quindi al blocco sovietico, con premesse economico-sociali e storie politiche così diverse. Se sono previsti dovunque mutamenti non superficiali, essi saranno anche profondamente differenziati. La rottura che la Rivoluzione d’ottobre introdusse nella Russia zarista è cosa diversa dalle vicende dell’Ungheria o della Cecoslovacchia. In che misura verrà evolvendosi sotto questo profilo l’Urss, a quali contraccolpi assisteremo nei vari paesi, passato l’urto di questi giorni, non è facile dire. Ma anche su questo un partito come il Pci deve raccogliere le idee e interrogarsi, per fissare almeno delle linee di orientamento, facendo chiarezza su quello che oggi significhi davvero socialismo, al di fuori di facili sollecitazioni emotive e retoriche.
Nel dibattito che si è aperto su queste stesse pagine è ricomparsa la discussione su Marx vivo e Marx morto. Lei che ne pensa?
La «crisi» di Marx e del «marxismo» è argomento di conversazioni più o meno serie da circa un secolo. L’invio di Marx in soffitta è ricorrente, e al viaggio di andata e ritorno dalle soffitte al piano nobile l’autore del Capitale deve aver fatto ormai l’abitudine. Or non è molto sembrava anche in Italia che non si potesse toccare argomento alcuno senza rifarsi a Marx, si fosse letto o meno. I suoi testi, varianti comprese, sembravano sacri. Oggi spesso gli stessi che alle sue pagine magari non lette si genuflettevano, scoprono che leggerlo è inutile.
Come tutti i grandi che hanno contribuito a trasformare il mondo in cui viviamo, Marx è presente e importante, oggi come ieri, ovviamente in modi diversi. Così nella discussione aperta, e urgente, entrerà anche Marx, in positivo o in negativo, e proprio perché è stato presente alla genesi delle situazioni di cui drammaticamente si discute. Solo che oggi il problema è soprattutto: che fare? che orientamento prendere? che progettare? E, anche, che significato possono avere certi orientamenti di ieri, certe parole d’ordine?
La questione del nome per lei è da mettere tra parentesi. Non è importante?
La questione del nome per me è molto importante, e io non avrei mai pensato a metterlo in discussione, anche se quel comunismo oggi può sembrare uno spettro. Mi vengono in mente, invece, le parole di Antonio Labriola, di una lettera a Croce della fine di dicembre, mi sembra, del 1898. Per te, diceva Labriola a Croce, Marx è un problema teorico, da discutere e risolvere a tavolino. Io sto con quelli per i quali il marxismo e l’antimarxismo sono simboli e bandiere. Le bandiere non si cambiano; per le bandiere si combatte e si muore. Ora il Partito comunista italiano non solo ha mantenuto sempre un suo carattere peculiare, non solo si è distinto dagli altri partiti comunisti europei. Ha collaborato alla Costituzione democratica dell’Italia repubblicana, per essa si è battuto ed ha avuto i suoi morti. Quale mai preoccupazione lessicale può essere così forte da farci dimenticare ben più di mezzo secolo di storia gloriosa?
Con tutto questo, se come conseguenza di una profonda e meditata evoluzione, per generale consenso, si giungesse a una scelta più adeguata, potrei capire. In nessun caso per decisioni a priori, o per altrui suggerimento o pressione.
Ma non crede che già da quando Berlinguer propose la terza via, cioè una soluzione diversa da quella tentata nei paesi a socialismo reale, ma anche nell’Occidente capitalista, i comunisti italiani avrebbero dovuto chiamarsi in un altro modo? Il modello di società a cui guardavano e guardano non è né a Est, né a Ovest. E chiamarsi socialisti in Italia non si può, dal momento che anche quel nome, con Craxi, si è compromesso e non significa più quel che significa realmente.
Avrebbero potuto, non dovuto. Nella storia i nomi hanno spesso cambiato valore e significati, rimanendo gli stessi nel mutare delle cose. Nell’ambito che ora ci interessa si pensi solo alle variazioni di significato e di sfumature che hanno avuto i termini «socialista» e «socialismo», e alla difficoltà, oggi, di dare un significato univoco alla parola socialismo pur fra tanta dovizia di aggettivazioni. La verità è che si tratta, per usare un termine tecnico, di una idea regolativa, di un «ideale», di un’utopia, ma senza ideali e utopie gli uomini non si muovono.
Non a caso mi torna in mente il Partito d’azione col suo socialismo consapevolmente difeso come ideale regolativo. Fu un piccolo gruppo di intellettuali senza seguito, ma che seppe combattere con coraggio contro il fascismo, e che espresse con forza ragioni ideali sempre operanti come fermenti ineliminabili: la libertà e la giustizia, la giustizia nella libertà.
Eppure la questione del nome ripropone un tema che investe anche gli altri partiti. Il cemento di queste aggregazioni non è più la radice ideale, spesso ideologica, da cui sono nati. Prevalgono organismi politici che rappresentano interessi determinati, precisi. Forse tutto il sistema politico italiano avrebbe bisogno di partiti i cui nomi corrispondano a quello che effettivamente fanno. Lei pensa che gli «ideali» abbiano ancora un peso nella scelta politica che un individuo fa? E non crede che il partito, la forma partito, sia in crisi? Penso al modello bolscevico, ma anche al partito di massa di Togliatti. Mi sembra più attuale la riflessione di Gramsci sul moderno principe, sull’organismo sociale su cui si fonda il consenso.
La domanda mette in discussione quello che oggi stanno diventando, o sono diventati, quasi tutti i partiti politici, spogliati di ogni motivazione ideale o ideologica: gruppi organizzati che perseguono interessi determinati senza esclusione di colpi. Di qui il panorama che si presenta ogni giorno ai nostri occhi: lottizzazioni, poteri occulti, logge massoniche tipo P2, intrecci fra mafia e potere politico, appalti addomesticati, lobbies. È chiaro che non si tratta di dare dei nomi a questi raggruppamenti, ma di porre in discussione quello che i partiti sono diventati, o stanno diventando, e se era questo che prevedeva la Costituzione quando all’articolo 49 diceva che «tutti i cittadini hanno diritto ad associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». In realtà la scelta politica, che è sempre scelta del bene del singolo nel bene di tutti, non può non essere, sempre, in qualche misura, sacrificio del proprio interesse e quindi scelta morale, non può non implicare una scelta di vita. E questo appunto intendeva dire Giorgio Amendola quando parlava della scelta del partito come «politicamente e moralmente motivata». Che è poi quello che ha caratterizzato per tanto tempo e per così larga parte le scelte e la vita del «popolo» comunista, e che spiega, oggi, la giusta difesa della sua storia e delle sue motivazioni ideali. Senza le quali, così come senza un profondo senso morale, la lotta politica decade a un cozzo brutale di egoismi scatenati, in cui perdono senso anche quei termini chiave di cui si fa così largo consumo, come libertà e democrazia.
Lei ricorda episodi vivissimi della nostra storia (i continui attacchi del fascismo, i veti americani, i poteri occulti). Mi viene in mente che per molti anni anche i comunisti italiani hanno difeso la corsa sovietica agli armamenti dicendo che l’Est era in trincea, che il popolo russo aveva sperimentato l’invasione con Napoleone prima, con Hitler poi. Esperienza che l’America non ha mai fatto. Ora Gorbaciov ha spezzato questa logica. Non vale anche per i comunisti italiani?
La questione riporta il discorso al punto di partenza, ossia alle conseguenze del mutamento radicale della situazione europea e mondiale, a un diverso rapporto fra gli Stati che non può non costringere i maggiori partiti a interrogarsi sulle loro strategie. Quando la seconda guerra mondiale si interruppe, nel ’45, non cominciò un’era di pace. La guerra fredda era pur guerra, una guerra che in un paese come l’Italia continuava, meno sanguinosa ma ancora guerra. Il Pci guardava in particolare ai paesi «socialisti», mentre lo Stato vincitore, egemone in Italia, considerava non solo «nemico» il mondo socialista e l’Urss, ma combatteva il «comunismo» come incarnazione del male. Non è certo il caso di insistere ancora su quella «guerra», su quello che costò non solo al Pci ma all’Italia, con tutti gli intrighi e le stragi «misteriose»; con tante vittime e senza colpevoli, da piazza Fontana a Ustica. La modificazione di quella situazione, che speriamo profonda e duratura, mentre, a mio parere, richiede un ripensamento radicale da parte di un partito come il Pci, che si collocava nell’occhio del ciclone, impone agli Stati come a tutti i partiti di rimettere in discussione i problemi nella nuova luce, anche se, e lo hanno ricordato insieme Shevardnadze e Mitterrand, i milioni di morti provocati dall’imperialismo germanico e dal nazismo non debbono essere dimenticati. Ma sarebbe bello davvero se la logica perversa della guerra fosse finita, e non si trattasse solo di una delle solite illusioni fin de siècle. In questa atmosfera il Pci, in una rinnovata dialettica, potrà dare un contributo decisivo a quel rinnovamento di tutta la vita politica di cui l’Italia ha urgente bisogno.
[Ma un'utopia deve restare], 7 gennaio 1990
Eugenio Garin (Rieti 1909 – Firenze 2004) Storico della filosofia italiano. Dal 1949 al 1974 ha insegnato all’Università di Firenze, prima storia della filosofia medievale e poi storia della filosofia. È passato quindi alla Scuola normale superiore di Pisa dove ha insegnato fino al 1984 storia della filosofia del Rinascimento. È stato presidente dell’Istituto nazionale di studi sul Rinascimento, socio nazionale dei Lincei e prestigioso collaboratore dell’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani. Ha prevalente rivolto i suoi interessi alla cultura umanistica e rinascimentale, di cui ha messo in luce gli elementi caratterizzanti, ponendo l’accento sui problemi della “vita civile”, ma senza distogliere l’attenzione ai problemi del pensiero moderno – come dimostrano le Cronache di filosofia italiana: 1900-1943, edito nel 1955. Incisiva la presenza dell’opera di G. nella cultura del secondo Novecento non solo per l’influenza determinante dei suoi studî sul Rinascimento, ma anche per la sua severa lezione di metodo storiografico. Costante anche il suo impegno nel dibattito politico.
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