AI 1.1. Eugenio Garin: Il filosofo visto da tergo
Appropriazione indebita
I. Ieri e oggi
1.1. Eugenio Garin: Il filosofo visto da tergo
Sono riusciti a convincerlo. Con qualche dubbio, ma l’ha fatto: poco più di trenta pagine per raccontare il suo itinerario filosofico, una sorta di autobiografia intellettuale che ha tutto il sapore di un rapido affresco sulla cultura del nostro secolo.
Sessant’anni dopo è il titolo del saggio di Eugenio Garin che la rivista «Iride», il semestrale della sezione di filosofia dell’Istituto Gramsci toscano, manda in libreria in questi giorni. «Iride» è una rivista atipica nel panorama delle pubblicazioni filosofiche italiane: raccoglie non solo generazioni diverse di studiosi, ma anche correnti di pensiero che, se è vero che hanno voglia di dialogare, è altrettanto vero che distano molto l’una dall’altra.
Professor Garin, che ne pensa di questo «dialogo»?
L’incontro è difficile, anche se non lo vedo impossibile. Se si arriva alla filosofia dalla scienza o dall’arte,necessariamente si elaborano teorie diverse, con strumenti diversi. Ma la caratteristica di questa rivista, come recita il suo sottotitolo, «Filosofia e discussione pubblica», è quella di far misurare la riflessione filosofica appunto con la discussione pubblica: questo è possibile ammettendo l’eterogeneità, cioè la molteplicità degli approcci. Allora, incontrarsi e collaborare si può. Del resto, filosofia e discussione pubblica sono due aspetti complementari.
A questo impegno pubblico della filosofia lei si richiama anche nel suo saggio. Ricorda di quando Abbagnano organizzava incontri periodici tra filosofi «che avevano in comune alcuni orientamenti generali », tra cui «la responsabilità politica inerente all’impostazione aperta del lavoro filosofico, e l’impegno di difendere e promuovere le condizioni di libertà che rendono possibile tale lavoro».
Guardi la data di quegli incontri. Era il 1953, erano tempi difficili. La pressione esercitata dal di fuori era forte. Si combatteva per la libertà della cultura. E combattere significava anche impedire che nei concorsi universitari si facessero trucchi. Bloccare il tentativo vivace di escludere dai concorsi chi apparteneva a orientamenti pericolosi. La situazione ora è molto migliorata.
Vuol dire che gli intellettuali non devono più affermare quella responsabilità politica?
Oh, no. Devono farlo ancora.
Nell’ultimo paragrafo del suo saggio, lei apre una parentesi che ha tutta l’aria di essere un intervento inuna polemica tra filosofi ancora calda. Scrive di non ridurre, com’è stato detto, «la filosofia a storiografia», ma d’intendere la «storia della filosofia come filosofia». È il tema che ha contrapposto violentemente Paolo Rossi a Emanuele Severino…
Ho scritto quella frase prima della polemica. Io vedo la filosofia come sapere storico, cioè la storia della filosofia come fare filosofia. Fare storia della filosofia significa analizzare come si sono costruite e manifestate le filosofie, ricostruire rigorosamente il lavoro dei filosofi. Per capire Platone non possiamo leggere solo un Dialogo e chiosarlo senza avere presente il contesto complessivo del lavoro di Platone, dell’epoca in cui viveva. Fare questo lavoro di ricostruzione rigorosa significa fare la filosofia.
Insomma, in quella polemica lei si schiererebbe dalla parte di Rossi.
Sa, Rossi è stato un mio allievo, che poi ha preso la sua strada autonoma, ma che con me credo condivida una certa impostazione. Io posso dire quale è stato il mio approccio con la filosofia, quel cercare di vedere la genesi di un’opera, i problemi a cui risponde. Questo non mi impedisce di riconoscere che siano possibili strade diverse, ammettere che esistano anche altri modi di fare filosofia. Del resto è filosofia quella dello scienziato che riflette sul significato del proprio lavoro, su ciò che ha fatto non per filosofia. Ed è filosofia anche quella del politico che interpreta un’epoca. Basta vedere Leibnitz e Hobbes per rendersene conto. Insomma, non ci sono mai strade lineari. E poi, guardi, quando si arriva alla mia età, si vede anche la fragilità di quello che si è fatto.
Leggendo il suo saggio si ha l’impressione di un uomo che ha continuamente fatto i conti non solo con la cultura «accreditata», ma anche con correnti, con pensatori per molto tempo rimasti nell’ombra. Mi pare si possa leggere così, per esempio, il suo rapporto con Cassirer o con Aby Warburg.
Il nome di Warburg me lo fece per la prima volta Pasquali. La sua influenza negli studi della mia generazione all’Università di Firenze fu notevole. Ci avvicinò molto alla filologia classica tedesca, tanto che chi usciva da Firenze, allora, era rimproverato di fare filologia e non filosofia. Questo comportò l’interesse per autori che fino agli anni ‘40 non erano diffusi. Pensi, l’unico che conosceva bene Heidegger prima della guerra era Luporini, che sentì più di me le sollecitazioni dell’idealismo, ma che in compenso capì come pochi altri la posizione di Heidegger. Il fatto è che nella facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Firenze, appena nata sulle ceneri del vecchio Istituto di studi superiori, accanto al gusto per la cultura inglese, conviveva quello per la cultura tedesca. Va ricercato in questo il fatto che la tradizione che c’era a Firenze fosse atipica rispetto all’Italia: abbiamo risentito molto meno del neoidealismo imperante. Pensi che noi abbiamo letto Gentile per il male che ne sentivamo dire, in particolare da De Sarlo.
La filologia classica tedesca. Ma che altro si respirava in quegli anni?
Forse il positivismo di John Stuart Mill, visto da Salvemini. Ma sa, erano radici diverse dalla cultura crociana, di cui neanche noi, in parte, ci rendevamo conto. Si è trattato di una «infedele fedeltà» alla tradizione di Pasquale Villari, che era stato allievo di De Sanctis, di un positivismo che fu criticato non solodagli hegeliani, ma anche dai positivisti.
Un positivismo che non ha impedito di misurarsi con l’irrazionalismo, mi pare.
Senza dubbio, e che anzi ha permesso di mettere in evidenza gli aspetti significativi dell’irrazionalismo.
Lei inizia il suo saggio ricordando che il suo incontro con la filosofia avvenne quando entrarono in vigore nei licei i programmi della Riforma Gentile. Ricorda di quel professore «che di filosofico aveva soprattutto una gran barba bianca »…
Arturo Linaker. È stato riscoperto. Hanno pubblicato il suo epistolario con Vilfredo Pareto, di cui era buon amico.
Da allora, sessant’anni fa, l’organizzazione degli studi è cambiata. Che pensa dell’oggi?
Oh, era un’altra università, alla quale non ci si può più riferire pensando di organizzare quella attuale. Preparava all’insegnamento, alla carriera bibliotecaria, alla ricerca. I nostri corsi erano la preparazione generale, ma poi c’erano le lezioni specifiche, i seminari dove ci si misurava con la preparazione scientifica. Si era in pochi, si andava a prendere il tè dal professore, magari si finiva per fare le vacanze nello stesso posto dove andava lui. Era un dialogo fitto, costante, in un’aula, ma anche passeggiando. Era quello che Gramsci chiamava «il garzonato universitario torinese». Io ho riscoperto quel modo di insegnare solo quando ho accettato l’incarico alla Normale nel ‘74. Oggi la carriera per l’insegnamento e la preparazione universitaria sono due cose diverse. Ma chi crede che si possa rinunciare all’università di massa si sbaglia. Il problema è di organizzare bene un altro tipo di scuola.
[Una storia da filosofo], 28 novembre 1989
Eugenio Garin (Rieti 1909 – Firenze 2004) Storico della filosofia italiano. Dal 1949 al 1974 ha insegnato all’Università di Firenze, prima storia della filosofia medievale e poi storia della filosofia. È passato quindi alla Scuola normale superiore di Pisa dove ha insegnato fino al 1984 storia della filosofia del Rinascimento. È stato presidente dell’Istituto nazionale di studi sul Rinascimento, socio nazionale dei Lincei e prestigioso collaboratore dell’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani. Ha prevalente rivolto i suoi interessi alla cultura umanistica e rinascimentale, di cui ha messo in luce gli elementi caratterizzanti, ponendo l’accento sui problemi della “vita civile”, ma senza distogliere l’attenzione ai problemi del pensiero moderno – come dimostrano le Cronache di filosofia italiana: 1900-1943, edito nel 1955. Incisiva la presenza dell’opera di G. nella cultura del secondo Novecento non solo per l’influenza determinante dei suoi studî sul Rinascimento, ma anche per la sua severa lezione di metodo storiografico. Costante anche il suo impegno nel dibattito politico.
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