Cani sciolti

Un'immagine del 1968 a Milano di Uliano LucasLorenza Pampaloni, la figlia del leggendario Geno che lavorava con Giorgio alla Vallecchi e ne ha fatte anche altre, è una delle colleghe che, strappate a importanti testate giornalistiche, sono finite a lavorare con me a Toscana Notizie. È stata la compagna, e in fin di vita la moglie, di Michelangelo Caponetto, riconosciuto leader del ‘ 68 a Firenze, personaggio con il quale non ho mai avuto grande simpatia, perché benché pencolassimo entrambi da una parte e non dall’altra, stavamo ai due lati di una barricata e io non vedevo con favore l’agitazione che l’animava e anche qualche incongruenza.

Da molte persone, invece, soprattutto sul dopo, ne ho sentito parlar bene. Io non so né voglio giudicare, porto rispetto a un uomo che non c’è più e ha lasciato comunque il segno. Perciò, come avevo promesso molto tempo fa a Lorenza, pubblico un racconto che è stato scritto su Caponetto da un suo amico, Paolo Brandinelli. Mi sembra piacevole da leggere e perciò, buona lettura.

MICHELANGELO ARTURO E ARTURO

di Paolo Brandinelli

Non era successo altre volte di avere più di una visita nello stesso anno, ma, nell’ estate del 2003, Lorenza e Michelangelo arrivarono due volte a Anghiari.

La prima, un Guerri’s day, era da tempo programmata, la seconda, quella fatale, fu una sorpresa.

Nella Valtiberina Toscana, Lorenza ha una radice importante, poiché sua nonna, la madre di Geno Pampaloni, per me “la zia Assuntina” in quanto sorella di mio nonno Pietro Guerri, è nata a Anghiari. Un terzo fratello era Domenico, l’insigne dantista che tutti abbiamo conosciuto al liceo attraverso la lettura delle note alla Divina Commedia.

Con i cugini e rispettivi/e consorti (in realtà figli dei figli di Assuntina, Pietro e Domenico Guerri) ci si incontra almeno una volta all’anno, spesso proprio a Anghiari, in estate.

In una di queste occasioni, poco meno di venti anni fa, ci fu una notevole performance di Michelangelo, al termine di una giornata in campagna. Al ritorno ci si era fermati al Paris (si pronuncia con la “s”, anche se forse non si rifà al figlio di Priamo). La balera disponeva  di una vasta sala da ballo, quella sera vuota, ma con uno stereo abituato ai lisci. Quando partì il valzer, lo si vide abbrancare Gabriella, la mia ragazza alta e magra, e volteggiare nella pista deserta.

Ma, grazie a Michelangelo, per più volte c’è stato anche un meeting fiorentino di fine anno, la “cena del salmone” , nella casa di Via Giusti. Il salmone, enorme, era quello che lui ci cucinava in apposita casseruola ovale, e ci serviva con parecchie arance. Ad almeno una di queste cene partecipò anche Arturo; le apparizioni di Orlando erano piuttosto fugaci. Ma questo, lo realizzo ora seguendo i  ricordi, era nella tradizione, che prevede poca presenza della generazione successiva e, da me, molti quadrupedi con naso all’ insù attorno e sotto il tavolo rituale. Non ho dubbi sul fatto che la scintilla sia scoccata quando si sono incrociati lo sguardo del grosso Michelangelo Arturo, dall’alto, e quello del cucciolo Arturo, dal basso.

Comunque sia andata, certamente è tutta mia la responsabilità dell’ incontro e forse a questo punto potrei anche dire il merito, se non fosse per il fatto che fu, per quanto mi riguarda, del tutto involontario. Non ho alcun ruolo, invece, in quello con Lorenza anche se conoscevo entrambi da decenni prima del loro fidanzamento. Lorenza, diversamente dai fratelli, è poco più giovane di me e quindi più vicina nei ricordi dell’infanzia  e dell’adolescenza, fatti di vacanze estive nella casa dei miei genitori a Anghiari, dove la zia Assuntina soggiornava per lunghi periodi, o in quella dei suoi a Gaby, nella valle di Gressoney la Trinité. Erano gli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta : Michelangelo l’avrei conosciuto, come quasi tutti, pochi anni più tardi.

Nel primo viaggio 2003, a metà giugno, Arturo, che allora forse si chiamava solo Bobi o Chicco o simili, non credo si sia fatto vedere, perché doveva essere ancora troppo piccolo per superare i cento metri fra la mia casetta in campagna e la fattoria dei vicini di campo, dove si trovava la cuccia della mamma Birilla. Birilla era una pointer bianca e nera tutta muscoli, figlia di Birillo, un cagnone giallo a pelo corto, vittima forse delle vacanze estive dei suoi sciagurati primi padroni e adottato dal mio vicino Menco.  Birilla era talmente forte e selvaggia da riuscire (ahimé) a uccidere da sola un daino adulto nel bosco che delimita i campi collinari, coltivati a frumento o fieno.  Era imparentata,  quindi per via di madre, con le altre femmine della fattoria, Leda, la decana Moschina e la giovane Zeta. Tutte cagne con fisionomie riconducibili a razze diverse, ma tutte da caccia : setter, segugi, pointer, bracchi, … Chi proprio non aveva attitudini venatorie né parentela con gli altri cani era Charlie, il gigantesco padre di Arturo, un pastore tedesco che era stato acquistato cucciolo dal mio vicino, quando, invecchiando, aveva perso interesse per la caccia. Charlie era molto più Zanna Bianca che non Rin Tin Tin o il Commissario Rex.  Queste cose le ho raccontate a Michelangelo, via via che Arturo diventava un macigno.

Quando Michelangelo arrivò con Lorenza da una Firenze già bollente in quel giugno del 2003 fece una serie di tuffi (impossibili da dimenticare e comunque filmati) nel laghetto-piscina, senza cloro ma abitato da due grosse carpe e un numero imprecisato di rane e ciprinidi vari. Non incontrò dunque il futuro Arturo, ma  certamente i suoi genitori e le altre cagne, che da me erano di casa, grandi amici dei miei numerosi gatti.

Trascorsero il Luglio e l’Agosto, torridi come da copione. I cugini e rispettivi/e consorti  si dispersero fra mari e monti mentre,  sulle rive del Lago di Montedoglio, Menco arava i suoi campi con il cingolato (non senza Birilla e Zeta sopra il cofano del motore), Maria Pia, l’amico Francisco Perez e il cugino Piero, con le rispettive famiglie, cercavano di fare un po’ di turismo balneare, mentre io cercavo di coinvolgerli nei miei piani di hard gardening. Charlie faceva la siesta sdraiato nel prato, all’ombra del canneto, accanto alla brandina di Matias Leon, il piccolo Perez. In realtà dormiva proprio, ma la mole garantiva comunque la vigilanza. Tutto come da copione, compresi i gatti, che naturalmente facevano nulla, salvo Before A che era notevolmente impegnata a difendere i suoi piccoli rossi e gli altri nati a primavera dalle esuberanti effusioni di un cucciolo sconosciuto (non so se fosse al corrente del fatto che era figlio di Charlie e di Birilla, suoi amici di vecchia data) che aveva cominciato a scendere dalla fattoria e soggiornare da noi per tutto il giorno.  In effetti Arturo, piccolissimo, riusciva a spaventare un po’ i micetti di pochi mesi e il piccolo Matias, o per lo meno, questi erano gli unici che, con sua evidente gioia,  correvano quando li inseguiva nei prati. Comunque tutte le ostilità cessavano con la cena all’aperto, quando i grandi  restavano a parlare a tavola, Matias, la sorellina Alessandra e Arturo si addormentavano nelle brandine accanto al fuoco. Il più piccolo dei cani, com’era naturale che fosse, divideva il lettino con il più piccolo degli umani.

Ma, quando le notti erano ancora abbastanza calde per cenare all’aperto, un pomeriggio di domenica arrivarono a sorpresa Lorenza e Michelangelo.

L’incontro con Arturo era scontato, in quanto da qualche settimana si era praticamente trasferito : da me (come sopra ricordato) ci si divertiva molto di più. Ricordo bene che, quando Michelangelo cominciò a manifestare l’idea di portarlo a Firenze, non lo prendemmo molto sul serio, anche se probabilmente gli avevo accennato che Menco, il proprietario, non aveva intenzione di tenerlo, per il timore che, da grande, entrasse in competizione con il padre Charlie. Cominciammo a pensare che non scherzava, e Lorenza a preoccuparsi seriamente, quando si incamminò verso la fattoria per trattare la cessione con Menco, che non conosceva.

Poco dopo mi trovavo con Lorenza che chiedeva una collaborazione dissuasiva e Michelangelo che mi chiedeva alloggio, per dar forza alla sua minaccia di non tornare a Firenze senza il cucciolo (l’autista era Lorenza).

Lei stessa non era certamente rimasta insensibile al fascino del lupetto, se non altro pensando al pastore tedesco, Nus, che aveva avuto nella villa di famiglia a Bagno a Ripoli. Ma si trovò costretta, in quell’occasione, a dover giocare lo scomodo ruolo del saggio che richiede un minimo di riflessione prima di una decisione che avrebbe influito nella vita di ogni giorno. Ero anch’io su quella linea e il mio argomento forte era la garanzia, suffragata da giuramento, che nulla sarebbe successo nella settimana e che, dopo averci dormito sopra e essersi organizzato, avrebbe potuto tornare per il ritiro la domenica successiva.

Ma ve lo immaginate Caponetto che cambia idea, convinto da una strategia dialettica che porta nella direzione opposta a quella che lui ha scelto ?

In realtà quella freccia di Cupido aveva un ardiglione talmente tenace che nessuno avrebbe potuto estrarla. Sarebbe del tutto sciocco cercare nella sfera del razionale ciò che in quel pomeriggio di fine estate passò per il suo cuore di intellettuale da città, stregato, complice il sole e il paesaggio, da un incontro non previsto. Forse ancora più sciocco che far indossare a Michelangelo il look serioso di un Humbert Humbert o di un Von Aschenbach .

Non ebbe effetto nemmeno il fattore tempo, perché era notte fonda quando Arturo, che già da tempo dormiva nel lettino di Matias, continuò a dormire, in viaggio, nella macchina di Lorenza.

Ma aveva ragione lui, perché le rive del Lago di Montedoglio non sono né Ramsdale né il Lido di Venezia e Arturo, che non è certo una Dolores Haze o un Tadzio, gli è rimasto al fianco anche dopo che se n’è andato, come molti di noi ricordano.

Così quella del 2003 fu la prima ed ultima estate in campagna per Arturo, l’ultima anche per Charlie, Birilla e Zeta, uccisi, quello stesso autunno, da un cercatore di tartufi.

michelangelo_e_arturo

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One Response to “Cani sciolti”

  1. vincenzo scrive:

    bello!

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